Il 24 e il 25 Febbraio a Roma si e’ svolto un incontro sul tema “L’oscena passione per la guerra”
promosso da Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte. Molte le femministe presenti da tutta Italia.Pubblichiamo l’intervento di Letizia Paolozzi, già uscito sul sito del Crs (Centro per la riforma dello Stato).
Devo ringraziare Ale e Franca per questa iniziativa. Penso che fosse indispensabile dare spazio alla nostra fame di relazioni e alla ricerca di pratiche da scoprire, inventare, nominare di fronte alle guerre.
Intanto vorrei nominare due donne, due compagne, due amiche che non ci sono più: Bianca Pomeranzi e Gabriella Bonacchi, alle quale questo incontro sarebbe apparso necessario.
In effetti, dopo il ritiro in solitudine del lockdown e la finta soluzione di riuscire a comunicare attraverso le tecnologie, oggi alle difficoltà economiche, alle condizioni totalizzanti imposte dal mondo del lavoro, si sommano le guerre. Il loro alito così vicino all’Italia.
Non che prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e del Medio Oriente in fiamme non esistessero conflitti armati in Siria, in Afghanistan, in Somalia, nello Yemen, in Mali dove migliaia sono stati i morti. Tuttavia oggi appare ancora più urgente strapparsi dal fascino della guerra, nominare l’insensatezza di situazioni in cui vince chi fa più morti. Bisogna trovare le parole per dirlo e indicare il soggetto che prova a opporsi a queste situazioni.
Non so se l’avete visto ma le parole le ha trovate Martin Mc Donagh con il film “Gli spiriti dell’isola” che racconta l’amicizia tra due uomini troncata brutalmente da uno dei due.
I due si chiamano Colm e Padraic. Sono compagni di bevute al pub e di chiacchiere stupide sulla cacca di un pony. A un certo punto Colm dice: “Non voglio più parlare con te. Mi annoio. Devo comporre una musica perché quando muoio voglio essere ricordato e lasciare una traccia come Mozart”. Padraic, uomo amabile e un po’ tonto, si ribella alla dichiarazione. Vuole conservare il rapporto. Si domanda “perché” Colm voglia cancellarlo. Non si da pace. Insiste, protesta, tampina. Colm gli promette un esito sanguinoso. Seguiranno scene quasi horror. Questo legame spezzato rappresenta il mistero della violenza delle azioni umane.
Contemporaneamente si sente l’eco – siamo nel 1923 – della guerra civile che infuria in Irlanda. C’è però una donna, Shioban, la sorella di Pàdraic, decisa a salvarsi. Difende il proprio desiderio di leggere libri e di qui la scelta di esiliarsi: “Me ne vado perché siete tutti pazzi”.
Il regista mostra la tendenza degli uomini a essere arrabbiati. D’altronde, le rappresaglie senza motivo, l’interruzione di ogni comunicazione sono affare di uomini. Mentre, si dice, l’estraneità è affare di donne.
Scrive Svetlana Aleksievic in quello straordinario scrigno di sapere femminile: “La guerra non ha un volto di donna”: “Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione maschile della guerra. Che nasce da percezioni maschili, rese con parole maschili”.
Ecco. Le guerre le fanno gli uomini. Soprattutto. E le raccontano gli uomini. Ma dalle prigioni ci si può liberare.
Nelle guerre, luogo per eccellenza patriarcale, si perde la presenza femminile. Per essere precise, la perde la stampa, la televisione e non è detto che i comportamenti delle donne nei conflitti armati vadano rubricati e rinchiusi nel termine “estraneità”.
Tuttavia, i conflitti ai quali assistiamo ci mostrano quanto si stia rafforzando il patriarcato con il suo corteo di assurdità. Ammesso che fosse scomparsa, riappare una certa idea della virilità; si usa un linguaggio militarizzato; la violenza appare come uno strumento giusto, che non fa più scandalo.
“Le guerre producono gli stessi effetti di un corso di manicheismo” (ha scritto Tzvetan Todorov)
Forse si tratta della rivincita del maschile che vuole riportare ordine dentro il disordine prodotto dalle donne con la sottrazione del proprio corpo e mente alla presa dell’eroe?
Bisogna aguzzare lo sguardo sulle guerre nonostante la difficoltà a bucare un sistema comunicativo cieco, che fatica a vedere il soggetto femminile e i suoi comportamenti.
Perché sui media abbiamo visioni fuggevoli di ombre femminili ma delle iraniane che rifiutano il velo, delle giornaliste che protestano contro l’ invasione russa, delle femministe russe arrestate perché portano un fiore in mano poco si parla.
Peraltro, avete notato come i fiori sono diventati un dispositivo di protesta? Un invito al pianto (con gli alberi piantati per ricordare a un anno di distanza i bambini morti nel naufragio di Cutro)? Un gesto di ribellione (per l’uccisione di Navalny)?
Bisognerebbe avere un’attenzione particolare nei confronti delle afghane che lottano per tornare a scuola, delle ucraine “esuli” che sottraendo il corpo al conflitto hanno cura di se, dei figli, degli animali che si portano dietro.
Di solito, l’esodo, la diserzione, l’esilio sono giudicati negativamente. Ammessi solo per le donne e con loro i vecchi, i bambini. Eppure si tratta di pratiche concrete, silenziose ma che preservano la vita. E dunque si oppongono alla guerra, seminatrice di morte.
È possibile richiamare l’interesse sui gesti piccoli, poco eroici, sconosciuti? Sarà la servetta di Tracia a strappare Talete di Mileto dal cielo delle idee e a riportarlo sulla terra.
L’associazione delle Guerriere per la pace (nome contradditorio per la verità) appena prima dell’attacco di Hamas del 7 Ottobre aveva organizzato cortei nelle città israeliane di ebree palestinesi e cristiane. A Parigi, la manifestazione delle donne dopo il 7 ottobre era senza bandiere e slogan. “Fermatevi ora. La guerra non è la risposta: stiamo attraversando l’orrore”. Per mesi Le Guerriere hanno chiesto di avviare negoziati di pace ai leader israeliani e palestinesi e di farlo includendo le donne.
I gesti delle donne possono essere una risposta alla domanda di Virginia Woolf “Come si può lottare per la libertà senza armi da fuoco”. Ma fino a quando non si vedono questi gesti, la politica continuerà a mettere al centro la sovranità e non la vulnerabilità. Mentre siamo tutte e tutti vulnerabili.