Robi Damelin e Layla al-Sheikh
L’8 marzo è passato. Chi prevedeva fiumi di retorica non ha avuto ragione. Abbiamo letto editoriali interessanti; articoli sul divario di paga, sulla fatica, sugli ostacoli che ancora incontrano le donne. Ma ci è rimasta la sensazione di un 8 Marzo di crisi. Forse in crisi.
Quest’anno la giornata stava stretta tra gli odi e le guerre. Pesa quella in Ucraina; quella in Medio Oriente spacca e divide.
Alle spalle abbiamo la pandemia. Non spingeva all’interdipendenza, all’essere in comune? La presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, la lezione del Covid l’ha ribaltata invitando l’Europa a investire in armi e difesa “come siamo riusciti a fare per i vaccini”. Dai vaccini che salvano vite ai missili che le vite vogliono stroncarle.
Il giorno prima dell’8 Marzo una “maratona oratoria di donne” (promossa dall’associazione
Setteottobre) ha fatto seguito all’appello “Non si può restare in silenzio” rivolto alle organizzazioni internazionali per riconoscere che quanto è avvenuto in Israele è femminicidio e stupro di massa e crimine contro l’umanità. Nessun cenno a Gaza nel comunicato-stampa. Quasi si dovesse scegliere tra un orrore e l’altro orrore.
Ha scritto David Grossman sul
NYT: “Non possiamo mettere da parte il pensiero delle ragazze e delle donne, e anche degli uomini, a quanto pare, che sono stati violentati dagli aggressori di Gaza, assassini che hanno filmato i loro crimini e li hanno trasmessi in diretta alle famiglie delle vittime; dei bambini uccisi, delle famiglie bruciate vive. E degli ostaggi”.
Nelle manifestazioni femministe, fin dall’appello allo sciopero di Non Una di Meno, della violenza sulle donne nel pogrom del 7 ottobre, delle donne stuprate, seviziate e uccise da Hamas, non resta traccia.
D’altronde, la discussione c’era già stata il 25 novembre, Giornata internazionale contro la Violenza sulle donne, per il silenzio su quante erano state annientate perché donne e perché ebree; sugli ostaggi usati come merce di scambio. Spiegazione che gira nel dibattito sui social: “Mica possiamo fare l’elenco di tutte le donne oppresse, dall’Iran all’Afghanistan”.
Il 25 novembre, dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, la manifestazione aveva raccolto un fiume di persone.
Oggi per Non Una di meno c’è “un prima” che consiste nell’apartheid della West Bank e di Gaza; che segnala il peso dei partiti della destra religiosa nel governo israeliano; che comporta l’annessione dei territori occupati; che registra il numero sempre più alto di colonie in Cisgiordania (addirittura gira sul web un elenco delle sinagoghe che in Canada e negli Usa vendono le case nei territori palestinesi occupati).
E c’è “un dopo”: i più di trentamila palestinesi morti; i bombardamenti, l’acqua tagliata, la luce tagliata, i rastrellamenti.
Ancora Grossman: “Al momento della pubblicazione, secondo i dati del Ministero della Sanità di Gaza gestito da Hamas, più di 30.000 palestinesi nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre. Tra questi ci sono molti bambini, donne e civili, molti dei quali non erano membri di Hamas e non hanno avuto alcun ruolo nel ciclo della guerra”.
Tra “il prima” e “il dopo” c’è il 7 ottobre e Hamas che agisce in nome del popolo palestinese. Ma non tutti i palestinesi vogliono l’eliminazione degli ebrei dalla regione e la soluzione dei due stati è ancora in campo.
Certo, di fronte al sangue versato, diventa sempre più difficile fermare l’esecrazione della popolazione civile palestinese.
Un po’ in tutto il mondo, e insopportabilmente nell’ Europa dove è nata ed è stata agita “la soluzione finale”, esplodono le aggressioni, le discriminazioni contro gli ebrei. Se cresce l’intolleranza verso Israele, delle femministe che lavorano sulla violenza per estrometterla dalle relazioni, non dovrebbero cercare parole diverse da quelle ricevute di una Palestina libera “from the river to the sea”?
Non dovrebbero, per i corpi lacerati nei kibbutz, al Nova festival, ripresi nei video di Hamas (poi cancellati) e dopo il Rapporto Onu sugli stupri, “fare rumore” come chiede Elena, la sorella di Giulia Cecchettin?
Nonostante nelle manifestazioni e nei testi degli appelli ci fossero anche cose giuste sul lavoro e sulle scelte della destra al governo, il 7 ottobre è stato ridimensionato, minimizzato, quasi che le ebree se la fossero “voluta”.
Di questo si dovrebbe poter discutere tra femministe (ricordiamoci che nessuna possiede il marchio di denominazione di origine controllata del femminismo) senza rimozioni e senza dividersi tra amiche e nemiche perché l’umiliazione del corpo femminile pesa a qualsiasi latitudine. E perché il massacro del 7 ottobre secondo me non è stato “un atto di resistenza armata” (così Judith Butler a Parigi).
Anche nel caso della filosofa la scelta delle parole conta.
E conta il linguaggio; conta la volontà di spostare la pratica politica, di produrre libertà femminile.
Lo fanno due donne: Robi Damelin e Layla al-Sheikh, due madri: una israeliana l’altra palestinese, diventate attiviste del gruppo
Parents Circle che dal 1998 fa incontrare persone di entrambe le parti che hanno perso un familiare e attraverso l’empatia promuove il dialogo. Robi e Layla hanno perso un figlio in guerra e per causa della guerra, tuttavia, insieme e sempre di più si sono impegnate per la pace. “Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso, come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?” (Lucia Capuzzi
sull’”Avvenire” dell’11 marzo)
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