Dai tempi dell’Urss si parla di “dissenso” per chi, in Russia, non la pensa come il potere. La parola torna con il “regno” di Putin, ed è utile chiedersi perché in un paese formalmente “democratico” (c’è un parlamento, la Duma, ci sono alcuni partiti, si fanno elezioni, che sono imminenti e tutti si aspettano un largo “consenso” al presidente) si parla così poco di “opposizione”. Navalny attaccava il regime soprattutto su due temi: la corruzione dei potenti, e la manipolazione del voto con brogli e esclusioni illegali di concorrenti.
Domenica al festival letterario femminista Feminism7, alla Casa internazionale delle donne di Roma, se ne è discusso presentando il libro di Raffaella Chiodo Karpinsky Voci dall’altra Russia. Quelli che resistono alla guerra, auto-pubblicato dall’autrice con il sito “ILMIOLIBRO”. È stato criticato – hanno partecipato Chiara Ingrao e Fulvia Bandoli – un commento su La Repubblica con la tesi che la morte di Navalny avrebbe indebolito, se non esaurito, la reazione allo strapotere di Putin.
Tesi capovolta nella discussione. «La cosa più bella – ha detto l’autrice – è che in questi giorni sono continuate le sfilate di migliaia di cittadine e cittadini alla tomba di Navalny». La Repubblica, come tanti altri media, ha dedicato molti articoli a chi si oppone a Putin. Ma un altro accento critico verso il sistema dell’informazione in Italia e in Occidente, è stato che a queste tante voci della società russa si dedica attenzione solo quando il potere spezza la vita di chi ha il coraggio di criticarlo. È stato così con l’assassinio di Anna Politkovskaja, e oggi per la morte in carcere di Navalny.
Secondo Raffaella Chiodo Karpinsky il “dissenso” e l’opposizione alla guerra non si affievoliranno. Centinaia di persone sono in carcere, spesso colpevoli solo di aver pronunciato la parola proibita “guerra”, o di aver applicato ai cartellini dei prezzi sui banchi di un mercato qualche frase pacifista. Sono tra 15 e 20 mila sotto processo per motivi simili e il carcere lo rischiano. Ma le cifre crescono fino alle centinaia di migliaia (si dice: 900 mila) se si guarda al fenomeno dei maschi russi scappati all’estero per non essere mandati a morire e uccidere in Ucraina.
C’è – è stato ripetuto – un forte protagonismo femminile, incarnato in questi giorni dalla moglie e dalla madre di Navalny. È stata la determinazione della madre a strappare la restituzione del corpo e la celebrazione pubblica del funerale. Ma ci sono le associazioni di mamme e mogli di soldati che si battono per il loro “ritorno a casa”. E le donne russe e ucraine che stanno riuscendo a unirsi per pesare nella ricerca di un cessate il fuoco.
Quello che preoccupa e che deve interrogare soprattutto chi fa informazione è perché si parla così poco di queste realtà. A cedere più che il “dissenso” russo dopo la morte di Navalny sarà più probabilmente la nostra attenzione. Eppure di questa guerra “nel cuore dell’Europa” non si può fare a meno di scrivere quasi ogni giorno.
Il libro – una finestra sulla Russia e sui protagonisti dell’ “opposizione” a Putin e alla guerra, dal premio Nobel Muratov, fondatore e ex direttore della Novaya Gazeta, alla giovane artista Alexandra Skochilenko, condannata a 7 anni di carcere per avere sostituito 5 cartellini dei prezzi con parole contro la guerra – è uno strumento di conoscenza, riflessione, mobilitazione. Che cosa possiamo fare? È stato chiesto all’autrice. Per esempio organizzare un sistematico invio di lettere a chi è in carcere. E agire perché non cali l’attenzione.
Del libro si ridiscuterà a Roma il 20 marzo in Campidoglio (alle 17,30, con Gianni Cuperlo e Mario Giro).