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1997: la pagina quotidiana “L’una e L’altro” sull’Unità

30 Marzo 2024
di Letizia Paolozzi


Questo articolo di Letizia Paolozzi è pubblicato sul sito “Striscia Rossa” nell’ambito di una iniziativa con numerose testimonianze sulla vicenda dell’Unità, di cui quest’anno ricorre il centenario della fondazione, da parte di Antonio Gramsci nel febbraio del 1924. Il titolo completo è Se la libertà femminile finalmente fa notizia: la pagina quotidiana “L’una e L’altro”

A un certo punto, diciamo negli anni Settanta, succede che le donne decidano di essere infedeli al sesso maschile; con un taglio netto si separano dagli uomini. L’hanno sempre saputo che dalla potenza del corpo femminile di mettere al mondo un bambino dipende la volontà maschile di dominarlo. Adesso però il padre, il marito, il fratello, deve smetterla di trattare questo corpo come un mezzo, una proprietà, una mercanzia. Basta con il lavoro domestico, riproduttivo, gratuito, invisibile.
“L’una e L’altro”: l’irrompere del femminismo su “l’Unità”
Luce Irigaray (con “Speculum. L’altra donna, traduzione di Luisa Muraro, Feltrinelli, 1975) ha riscattato la sessualità femminile occultata e misurata secondo parametri maschili. Le donne guardano ai bisogni, attribuiscono importanza alla vita quotidiana. È proprio vero che “il treno dei desideri all’incontrario va” (da “Azzurro” di Paolo Conte e Adriano Celentano).
Grande sconquasso. Negli anni Novanta le cose si assestano ma vanno nominati i risultati (e le fatiche, gli intoppi, le illusioni, le delusioni) ottenuti dal ribaltamento nei rapporti tra maschi e femmine. A l’Unità nasce, il 6 marzo 1997, la pagina “L’una e L’altro” che dovrebbe raccontare questi cambiamenti. Poco a che vedere con le “pagine della donna” che il giornale di un partito “emancipazionista” aveva sperimentato nel dopoguerra, o forse un “filo rosso” riemergeva trasfigurato?
In fondo, sul riferimento al soggetto femminile il gruppo dirigente, da Togliatti in là, aveva sempre battuto. E dal momento che, negli anni Cinquanta, il giovedì bisognava potenziare la diffusione dell’Unità per via della “pagina della donna”, a Genova si bandisce un concorso “per la più brava a fare la maglia” detto dei “Ferri d’oro” mentre, in un paese della Toscana le ragazze della Fgci lanciano il concorso del “più bel dolce della Pace” che riscuote molto successo (lo racconta Sandro Bellassai nella “Morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del Pci 1947-1956”. Carocci 2000).
Evidentemente, niente più dolci e gomitoli di lana negli anni Novanta. La pagina nasce trascinata dalla nuova riforma, non solo grafica, de l’Unitàà. Assieme a una diversa articolazione dei due dorsi del giornale (l’Unità 1 e l’Unità 2, che già univa cultura, scienza, costume e spettacoli), aumentano le sezioni: nel secondo dorso pagine quotidiane dedicate alla scienza, la filosofia, la religione; nel primo dorso si apre al centro il “paginone” per una grande inchiesta, i ritratti e i commenti, seguito dalla pagina che prova a raccontare la realtà abitata dai due sessi.
Nell’editoriale che inaugura e spiega l’iniziativa scrivevo: “Le donne sono in movimento. Nella società, nei luoghi di lavoro, nella cultura. Creano gruppi, associazioni; producono pratiche politiche. E però. Se sono visibili, vengono comunque raccontate o mostrate o esibite come degli Et, degli extraterrestri”.
Siamo nella “seconda ondata” del femminismo radicale. Che possiede ormai una storia, una genealogia; che usa parole come “soggettività, pratica dell’inconscio, sessualità, oppressione, privato, differenza, dominio, patriarcato, lavoro domestico, ordine simbolico, libertà”; che si esibisce in manifestazioni lontane da quelle tradizionali della trontiana “rude razza pagana”. In effetti, nei cortei degli anni Settanta, sfilavano gonne a fiorellini, capigliature ricciute, zoccoli e mani alzate a formare il triangolo della vagina.
Due registri, due linguaggi
Quel decennio l’aveva segnato la spinta del movimento femminista nella battaglia per l’introduzione della legge del divorzio, della riforma del diritto di famiglia e di una legge che regolamenta l’aborto mentre, nel 1981, l’Italia liquida il delitto d’onore e il matrimonio riparatore (nella terza edizione delle “Leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia” a cura della Fondazione Nilde Iotti, Futura Editrice 2024, Livia Turco osserva: “Il diritto ad avere dei diritti, a vederli riconosciuti e concretamente realizzati, richiede anzitutto che i diritti siano conosciuti dai cittadini e dalle cittadine”).
Fuori dalle organizzazioni politiche tradizionali, fioriscono librerie delle donne, collettivi, gruppi di autocoscienza. Per molte finisce la coppia oppure viene congelata in una “pausa di riflessione” che annuncia tempesta.
Il sesso femminile vuole sottrarsi alla tutela maschile. Di qui la messa in questione della tradizionale militanza. Esplodono conflitti tra marxismo e femminismo, tra il “noi” collettivo, della classe operaia, del movimento operai-studenti, delle organizzazioni politiche della sinistra e “l’io” del “soggetto imprevisto”, annunciato da Carla Lonzi. Ci va di mezzo la sinistra e la parità intesa come riequilibrio della rappresentanza.
Se questa è una rivoluzione pacifica, che ognuna (e sarebbe auspicabile ognuno) dia inizio all’opera nel luogo in cui si trova e agisce. Tre giornalisti: Monica Luongo, Alberto Leiss e io lo faremo a l’Unità.
Continuavo nell’editoriale: “Questa pagina vuole lavorare intorno all’”una e l’altro”, cioè alla differenza tra i sessi. Giocare su due registri. Su due linguaggi. Che pure devono incrociarsi. Nel conflitto, nella discussione. Grazie anche alla presenza maschile, alla firma di uomini, proveremo a illuminare i cambiamenti nella vita delle persone, nei modelli di comportamento. Di qui, anche l’idea di una rubrica delle Lettere, alle quali risponderanno uomini e donne, piegata sul personale, sul privato, sui sentimenti.
“Individuare dietro ai legami amorosi, passionali, di amicizia che riguardano il vissuto nelle coppie, nei sodalizi, contraddizioni di quella zona oscura – il privato – ora improvvisamente messo nella piazza mediatica, spettacolarizzato ma non per questo più conosciuto. Ecco il tentativo di mettere in parola la modificazione che è davanti ai nostri occhi. Il ‘ghetto’ cercheremo di evitarlo. Aiutate dalle lettrici, dai lettori”.
Una novità. Altre (come il numero speciale su Orwell “1984”) ce n’erano state.
Le novità di Caldarola e Sansonetti
Ma che pensa la redazione del giornale delle esigenze, rivendicazioni, intemperanze, eccessi del femminismo squadernati sulla pagina? Conclusa la direzione Veltroni (nella primavera del ’96, Walter ha deciso di concorrere assieme a Romano Prodi al progetto dell’Ulivo), con la formazione del nuovo governo scatta la nomina di Giuseppe Caldarola. Una direzione ancora “giornalistica” dopo quella di Renzo Foa che deve fare i conti con un’eredità non facile, sia per il ruolo politico forte rivestito da Veltroni, sia per la situazione strutturale affatto rosea, drogata dai gadget, iniziative editoriali che vanno dai libri alle figurine ai film in cassetta.
Peraltro, l’Unità sperimenta l’inedita situazione di un governo diretto da un ex democristiano, al quale la sinistra ex comunista partecipa a pieno titolo. Caldarola propone un nuovo progetto editoriale, con l’obiettivo di riconciliare la redazione che aveva combattuto per l’autonomia e per l’autonomia si era divisa al proprio interno, riposizionando il giornale con il partito più che con l’Ulivo. Vuole recuperare lettori tradizionali e insieme arricchire il giornale di contenuti nuovi, in modo da ampliare le ragioni dell’acquisto. Piero Sansonetti è richiamato dall’ufficio di corrispondenza americano e associato alla direzione: sarà in gran parte sua l’idea di un giornale meno gridato, tematizzato, con titoli lunghi che non banalizzino i contenuti. Una “gabbia” che non convince molti redattori, e che lo stesso Sansonetti farà saltare con il discusso titolone in prima pagina “Scusaci principessa” alla morte di Lady Diana. (Letizia Paolozzi e Alberto Leiss “Il giornale in rosso. Chi ha incastrato l’Unità” Editori Riuniti 2001).
Sulla pagina “L’una e L’altro” scrivono redattrici e redattori dell’Unità. Fermo restando che di fronte a una innovazione chi la vuol cotta e chi la vuole cruda, non si levano grandi polemiche. Qualche commento da corridoio, più che altro perché il femminismo non è tema che interessi tutti (e tutte). Comunque, tanti sono i nomi esterni e mi scuso per quelli che ho dimenticati (Pia Covre, Pietrangelo Buttafuoco, Franca Chiaromonte, Elena Montecchi, Susanna Schimperna, Mario Gamba, Bia Sarasini, Franco Grillini, Gabriella Bonacchi, Gaia De Beaumont, Lina Sotis, Mariella Gramaglia, Giovanna Grignaffini, Roberta Tatafiore, Claudio Vedovati, Assunta Signorelli, Adele Cambria, le scrittrici Rossana Campo, Maria Rosa Cutrufelli, poi Anna Paola Concia, Luca Telese, Vieri Razzini, Aldo Bonomi) e una agenda di temi anche inattesi. Con firme maschili e femminili per rubriche il cui titolo è già un programma: I miei clienti; Diritti e Rovesci; Lo specchio di Eros; Le eminenti; Le Pulci; Anima e corpo; Cattive ragazze.
Mario Tronti, rispondendo alle lettere (come Lea Melandri e Alice Oxman e Carmine Ventimiglia), polemizza con la decisione di alcuni sindaci emiliani di accogliere donne e bambini albanesi, ma non i maschi adulti. “Non è questo il terreno dove far valere la differenza. Qui siamo dentro una drammatica emergenza. Quei morti in fondo al mare hanno un nome, solo quello dell’essere umano gettato in una vita che non gli appartiene e che gli è stata tolta prima ancora che da chi delinque, da chi comanda”.
Luisa Muraro si contrappone a Edoardo Sanguineti che aveva scritto della “inconclusione” della questione linguistica femminile/maschile. Altro che “inconclusione” ribatte la filosofa: “È una questione bellissima. Ce la pone la nostra lingua… Ci sono lavori e professioni che stentano a prendere il femminile”. Perché ci sono le contadine, le operaie, le ricamatrici, le segretarie e non il femminile del questore, sindaco, ministro, deputato?
In verità, ancora oggi abbiamo una donna presidente del Consiglio che vuole essere chiamata il presidente, ma deve trattarsi di un tic antico secondo il quale il potere può essere solo di genere maschile. E comunque sindaca, deputata, ministra sono entrate da tempo nell’uso quotidiano.
La pagina sta aggrappata alla cronaca. Guarda caso, dopo più di vent’anni, gli argomenti sono spesso quelli che ci stanno tra i piedi: un rapporto Istat sugli anziani per sottolineare la solitudine delle pensionate (gli uomini, spesso, interrompono la solitudine risposandosi). Il segno della vitalità femminile nel mondo con la notizia della prima donna che si candiderà alla presidenza iraniana. E ancora, la pornografia, la fecondazione fuori dall’incontro tra i due sessi.
La “privatizzazione” e la fine di “L’una e L’altro”
Quanto al giudizio dei lettori sulla pagina, noi tre puntiamo sul fatto che maschi e femmine non leggono alla stessa maniera; non si fermano sugli stessi temi. Era così venti anni fa ed è così oggi. Nei media (con l’eccezione della stampa “femminile”) funziona un’informazione destinata al “lettore modello” (definizione di Umberto Eco nel “Lector in fabula”, Bompiani 1979) maschile, cioè conforme ai modelli maschili tradizionali. Eppure, per le parole e le immagini impiegate, per ciò che mostrano e ciò che occultano, i media costituiscono un luogo di osservazione privilegiato nella costruzione dell’identità dei sessi.
Ma se descrivono un mondo dove gli uomini sono la maggioranza e le donne devono rispondere innanzitutto a una descrizione della loro apparenza fisica – l’ingiunzione ad apparire è sempre più forte per il femminile, nonché della loro situazione famigliare, madri, spose, amanti, figlie – è chiaro che le lettrici non sono contente di venire trattate da “invisibili” della storia. “L’una e L’altro” cerca di strapparle a questa invisibilità che non rende giustizia al sesso femminile. Quanto al partito – ancora seppure in modo claudicante – editore, da tempo manda giù i cambiamenti del giornale. Magari con qualche scenataccia al telefono di questo o quel dirigente ma che non significa censura, libertà d’espressione repressa, imposizione di una ideologia, giornalisti imbavagliati. Anche se qualsiasi intromissione del Partito diventa almeno ai miei occhi, un attentato di lesa maestà.
In fondo, le responsabili femminili, le compagne vedono nella pagina un luogo dove le loro iniziative hanno spazio senza la fatica di dover convincere un caporedattore, un caposervizio malmostoso. Nonostante che per il Pci non sia stato rose e fiori l’incontro con il femminismo, tra la contestazione alle Commissioni femminili, la scelta della “doppia militanza”, lo scontro sull’aborto, sulla violenza sessuale. La Carta delle donne del 1987 rappresenta in questo senso il tentativo più concreto e anche più interessante di costringere gli uomini di partiti e sindacati a ridefinirsi di fronte al sesso femminile. Ma con la divisione anche delle donne tra il Si e il No sulla fine del Pci, quel tentativo si arena.
Negli anni Novanta il femminismo non suona più una bestemmia. “Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito” annunciava la Libreria delle donne di Milano e quante avevano contribuito a scrivere “È accaduto non per caso – Sottosopra rosso – Gennaio 1996” : “È durato quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l’ha perduta, ci accorgiamo che non può durare”. Solo che l’ordine simbolico patriarcale può crollare di colpo.
Verso la fine del 1997 il giornale vende circa 70 mila copie. A un certo punto si capisce che i soci privati disposti a entrare chiedono un cambio di direzione. Arriva la cosiddetta “privatizzazione”. L’esperimento avviato con il progetto Caldarola-Sansonetti e dunque la pagina sono cancellati dalla nuova direzione “esterna” (Mino Fuccillo, 31 gennaio 1998).

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