«L’idea che la cultura possa risorgere dopo Auschwitz è un’assurda chimera, per cui l’opera d’arte paga a caro prezzo il fatto di esistere nonostante tutto. Poiché il mondo è sopravvissuto al proprio tracollo, però, continua ad avere bisogno dell’arte come di una sua storiografia inconsapevole». Adorno, nel 1962. Parole che mitigano la sua famosa sentenza dopo l’Olocausto, contestata tragicamente da Paul Celan: scrivere ancora poesie sarebbe un atto di barbarie…
LA CITAZIONE è all’inizio del libro di Jeremy Eichler L’eco del tempo. Quattro compositori, la guerra e l’Olocausto, la musica e la memoria (Marsilio, pp. 432, euro 22). L’ultima frase, sull’arte «come storiografia inconsapevole» è sottolineata in corsivo. Eichler ne fa «il tema» del suo testo: la musica come veicolo di memoria «intrisa di fortissime risonanze morali». Sceglie quattro opere «espressioni etiche ed estetiche tra la più intense del XX secolo», composte da «quattro giganti della musica novecentesca»: il breve oratorio Un sopravvissuto di Varsavia di Schönberg, le enigmatiche Metamorphosen di Strauss, il War Requiem di Britten e la tredicesima sinfonia, Babij Jar, di Šostakovic.
Ho letto il libro dopo il massacro di Hamas e mentre la risposta di Israele a Gaza si trasformava in violenza inaccettabile contro la popolazione civile palestinese. Una catastrofe anche simbolica: vediamo qualcosa di giusto nell’accusa di «genocidio» rivolta dal Sudafrica a Israele. Ma non possiamo accettare che proprio quell’accusa ricada sull’intero popolo vittima del genocidio più grande, che ha generato la parola stessa.
Cercare la pace è disperante. Essenziale è il recupero più profondo della memoria di quanto è storicamente accaduto. Per Eichler la musica può aiutarci. Può non aver bisogno delle parole, così compromesse.
ANCHE LE STORIE PERSONALI dietro quelle partiture sono istruttive. Strauss era amato da Hitler, accettò insostenibili compromessi, valutando cinicamente, e sbagliando, la possibilità di tutelare lo sviluppo della sua arte sotto il nazismo. Forse quella partitura, finita poco prima del suicidio del Führer, è una «metamorfosi» anche della sua coscienza.
Una musica assoluta (lo spartito reca una sola parola – in memoriam – con una citazione della marcia funebre dell’Eroica) sul fallimento della civiltà che aveva prodotto Goethe, Mozart, Beethoven, Schubert, e aveva illuso generazioni di intellettuali ebrei – dai Mendelssohn allo stesso Schönberg – sulla giustezza di integrarsi nella Bildung tedesca rinunciando alle proprie radici.
L’INVENTORE DELLA DODECAFONIA, rifugiato negli Usa, scrisse in sette minuti una denuncia potente del razzismo antisemita nazista. Tanto esplicita che l’establishment musicale americano – era il 1947 – esitò a eseguirla. Il libro ci ricorda quanto tempo passò perché la consapevolezza di quell’orrore si radicasse anche tra i vincitori. La «prima» si deve a un direttore, Kurt Frederik, di origini viennesi e trapiantato nel Nuovo Messico: un’orchestra di bravi dilettanti, la Albuquerque Civic Simphony Orchestra, e un coro di cowboy e rancheros di una comunità rurale. Fu, il 4 novembre 1948 in una scuola di Albuquerque gremita, un successo strepitoso.
Avvincente anche la storia del grande requiem «di guerra» composto da Britten per celebrare, il 30 maggio 1962, la ricostruzione della cattedrale di Coventry, distrutta ma non del tutto dalle bombe tedesche. La messa in latino è intercalata dai versi pacifisti del poeta Wilfred Owen, caduto nella prima guerra mondiale. Eichler avvicina la conservazione dei resti maestosi della Cattedrale scelta dall’architetto Basil Spence a questi inserti che evocano nella musica la Grande Guerra: si spera in un futuro di pace come l’angelo della storia di Klee e Benjamin, rivolto alle rovine del passato.
Nello stesso anno, il 18 dicembre, a Mosca è prevista la «prima» della tredicesima sinfonia di Šostakovic, dedicata con i versi del giovane Evtušenko al massacro degli ebrei nel burrone di Babij Jar, presso Kiev, crimine negato e occultato dal regime sovietico. Siamo al «disgelo» di Chrušcev, ma il capo dell’Urss non apprezza quell’opera, e attacca duramente Evtušenko. Si vorrebbe impedire il concerto, cambiarne il testo («Non c’è un monumento a Babij Jar»). Ma il poeta e il musicista resistono, la partitura si esegue e il successo è enorme. La sinfonia sarà poi proibita.
OGGI LA RIASCOLTIAMO, pensando all’amicizia e alla sintonia morale e artistica che legò l’omosessuale pacifista Britten e il comunista sempre in crisi Šostakovic. Eichler lo racconta in un capitolo toccante. E cita un verso di Anna Achmatova dedicato all’autore della «tredicesima»: «Soltanto lei (la musica) si avvicina e mi parla / Quando gli altri hanno paura di venire».