Questo articolo è stato pubblicato sul numero 4 del 2023 della rivista Critica Marxista.
Si moltiplicano gli allarmi, dalla maggioranza di governo,
ma anche da altri settori della politica e del mondo accademico,
sui grandi rischi che produrrà per la società il calo delle nascite.
I rimedi guardano a interventi (peraltro minimi) di natura economica.
Ma il problema forse è molto più complesso e radicale.
Opinioni, testi e dati su una scelta delle donne che ha rilievo globale.
Domenica 17 settembre 2023, il giorno della visita a Lampedusa della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e della premier italiana Giorgia Meloni, il Corriere della Sera è uscito con un editoriale di Ferruccio de Bortoli intitolato La natalità e le nostre illusioni. L’ex direttore del giornale notava il paradosso di una “emergenza” determinata dall’arrivo di alcune migliaia di immigrati “irregolari” in un paese che avrebbe immediato e consistente bisogno di manodopera in diversi settori – soprattutto in agricoltura e nel turismo, ma non solo. Inoltre, si tratta di una «umanità disperata» che approda a rischio della vita in Italia ma che in gran parte non intenderebbe rimanerci, e quasi sempre riesce in effetti ad andarsene, puntando a situazioni con maggiori possibilità di lavoro e di accoglienza in altri paesi europei. Cosa che, se si adottasse un punto di vista diverso, sarebbe da guardare con preoccupazione, invece che con malcelata – e anche un po’ ipocrita – soddisfazione.
Perché la singolare la situazione del nostro paese è questa: non si riesce a dare lavoro a tutti quelli che lo cercano e ne avrebbero bisogno (in particolare alle donne con figli) – e infatti molti giovani, specialmente se più qualificati, emigrano all’estero – ma non si riesce nemmeno a coprire l’effettiva offerta di lavoro da parte del sistema produttivo per mancanza di mano d’opera disposta a accettarlo.
L’“inverno demografico”
Il tutto è aggravato da quella che per molti, e molte, sarebbe la vera emergenza delle emergenze, cioè il calo demografico particolarmente acuto per il nostro paese. Ci arriva infatti anche De Bortoli, citando uno dei tanti libri recenti che affrontano il tema dell’“inverno demografico”, la Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi, sfide, di Alessandro Rosina e Roberto Impacciatore (1), dove si documenta che oggi i trentenni italiani sono un terzo in meno dei cinquantenni, e i nuovi nati sono un terzo in meno rispetto agli attuali trentenni. «Senza una vera strategia per l’immigrazione – commenta l’editorialista del Corriere – in combinazione con politiche familiari inclusive, ci si estingue». Il fantasma evocato è proprio quello della fine di una nazione: «Uno studio di Teha Ambro¬setti – conclude de Bortoli – ha previsto che, di questo passo, l’ultimo italiano nascerebbe nel 2225. Poveraccio».
Giusto, naturalmente, tentare di uscire dalle polemiche strumentali, populiste e propagandistiche del “presentismo” di tanta parte della politica, ma ha davvero senso regolarsi su previsioni che si spingono, sia pure provocatoriamente, due secoli in avanti?
I dati certo sono eloquenti. L’Italia condivide con Giappone e Corea del Sud i più bassi indici di fecondità del mondo. E un paese dove crescono a dismisura le persone anziane in pensione e bisognose di cure – anche perché (per fortuna?) si vive più a lungo – mentre diminuisce la popolazione attiva che paga i contributi, è destinato prima o poi a vedere fallito il proprio welfare. «È dalla metà degli anni Settanta – si legge nel Rapporto annuale 2023 dell’Istat – che il numero medio di figli per donna è sceso sotto la soglia di 2,1, valore che sancisce un teorico equilibrio nel ri¬cambio generazionale. La diminuzione è stata continua, fino al minimo storico di 1,19 figli per donna del 1995». Da allora, continua il rapporto, c’è stata una certa ripresa, fino al massimo relativo di 1,44 figli per donna nel 2010. «Tale aumento – scrive l’Istat – è stato sostenuto, in gran parte, dalle nascite con almeno un genitore straniero, arrivate a costituire circa un quinto del totale dei 562 mila nati del 2010. Successivamente, con il dispiegarsi degli effetti non solo economici ma anche sociali della crisi del 2008 e poi del 2011-2012, è iniziata una nuova fase di rapida diminuzione delle nascite e del numero medio di figli per donna».
Le cause sono economiche?
Da queste constatazioni del Rapporto si possono già trarre due con-siderazioni.
La prima: in tanto accanimento polemico delle destre soprattutto di Salvini e Meloni, ma non solo da parte loro, sui pericoli dell’“invasione” straniera, per non parlare della “sostituzione etnica” agitata dal ministro Lollobrigida (e anche da Meloni in campagna elettorale), la realtà è che la presenza di stranieri e straniere, in parte provenienti da culture dove in genere si fanno più figli, pur aumentando negli anni (ma molto meno di quanto è accaduto negli altri paesi europei maggiori e pure in molti “minori”), non riesce a correggere la tendenza al calo demografico. Oggi, mentre si torna a temere e a gridare contro l’“assedio” ai confini e l’“invasione” dal mare, le donne in Italia mettono al mondo mediamente 1,24 figli. Il 2022 si contraddistingue – ancora dati Istat – per un nuovo record del minimo di nascite: 393 mila, per la prima volta dall’Unità d’Italia sotto le 400 mila.
La seconda considerazione è che la ripresa del calo demografico dopo la risalita del 2010 è immediatamente collegata agli effetti socialmente negativi della crisi economica del 2008 e della sua “coda” nel 2011-2012. Qui non si vuole certo negare che ci sia un rapporto di causa-effetto tra la scarsità e precarietà di reddito e lavoro e la scelta di non fare figli da parte di giovani coppie (o giovani single). Ma non convince una spiegazione solo “quantitativa”. Come suggerisce un ultimo riferimento a un’interessante tabella del Rapporto Istat. Quella che elenca gli indici di fecondità nelle varie regioni italiane.
Se l’indice più alto (1,51 figli per donna) è quello della Regione più ricca, il Trentino-Alto Adige (reddito pro capite di 42.300 euro), subito dopo, sia pure a distanza, seguono la Sicilia (1,35), la Campania (1,33) e la Calabria (1,28). Quest’ultima è la Regione più povera (reddito pro capite 17.100 euro), preceduta proprio da Sicilia e Campania, il terzetto in fondo alla classifica della ricchezza. La Lombardia, seconda Regione più ricca, è solo al nono posto nella graduatoria della fertilità. Pur non essendo un esperto demografo, mi pare evidente che, oltre alle situazioni economiche, pesano altri fattori di tipo culturale, ambientale, tutte da investigare. Ci torneremo.
La destra al governo, sbandierando il vessillo “Dio, Patria, Famiglia”, ripete di essere schierata soprattutto sul fronte delle politiche per favorire una ripresa della natalità. Lo affermano con la premier il potente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Manto-vano, e la ministra ad hoc Eugenia Roccella. Agli “Stati generali della natalità” a Roma nel maggio 2023 Giorgia Meloni, che in quell’occasione ha potuto avere accanto a sé il Papa, ha ripetuto che la natalità per il suo governo è una «priorità assoluta», che se le donne «non avranno la possibilità di realizzare il desiderio di maternità senza rinunciare a quello professionale, non è che non avranno pari opportunità, non avranno libertà». Ma poi si è preoccupata soprattutto della battaglia ideologica a favore della famiglia tradizionale contro la Gestazione per altri: e qui in effetti la maggioranza di governo qualcosa ha fatto, riuscendo a far approvare, per ora alla Camera, la legge per il “divieto universale” della Gpa, che peraltro in Italia è già vietata dalla legge 40/2004.
Per il resto sono stati confermati nella legge finanziaria provvedimenti già esistenti, e per il futuro – scriviamo mentre ancora non è chiaro che cosa potrà entrare nella ardua legge di bilancio di quest’anno 2023 – si parla di vari tipi di nuovi “bonus” (per il secondo e forse i successivi figli), di interventi sul fisco per le famiglie numerose, di incentivi (sempre fiscali) alle aziende che assumono donne. Si dice poi che le aziende dovrebbero offrire direttamente servizi di welfare. È stato da più parti osservato che nel Pnrr sul tema c’è poco o niente, e semmai sono emerse difficoltà per portare a termine il programma sugli asili nido.
La paura di chi conta i numeri
Eppure la preoccupazione per l’“inverno demografico” non viene solo dagli esponenti della destra. Sul numero della Lettura del Corriere della Sera del 13 agosto 2023 lo statistico Roberto Volpi rilancia il grido di allarme che va ripetendo in diverse pubblicazioni e interventi ormai da molti anni: è un «errore clamoroso» – dice discutendo con la ministra Roccella, con Maurizio Ferrera (ordinario di Scienza politica alla Statale di Milano), e con il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi – accomunare l’Italia agli altri paesi investiti dal calo demografico: «Perché noi siamo ben oltre la crisi, siamo al tracollo demografico». E snocciola i dati che abbiamo già citato dal Rapporto Istat, insistendo particolarmente sul fatto che «le donne in condizioni di avere figli sono sempre di meno. Quest’anno entrano nell’età feconda 279 mila quindicenni e ne escono 476 mila cinquantenni. Ne perdiamo quasi 200 mila in un anno. Ne perderemo due milioni nei prossimi dieci». Volpi invoca determinazione e inventiva «che non vedo nella classe politica», critica la debolezza su questo terreno del Pnrr, ma in realtà la sua proposta “forte” è ancora un incentivo economico. Un assegno di 500 euro mensili alle coppie che mettono al mondo un secondo figlio.
Per Ferrera non è la via migliore, per quanto utile non sarebbe sufficiente perché ciò che disincentiva le donne è il fatto che in Italia lavorano molto poco, «il 50 per cento delle famiglie è monoreddito. In Germania sono la metà». E sappiamo che in genere a lavorare è il maschio, mentre la donna garantisce le cure domestiche.
Il sindaco Vecchi avverte però che non sta tutto in questi aspetti, ancora “quantitativi” ed economici, il problema della scarsa scelta di procreare delle coppie e delle donne singole. «Nel mio Comune, Reggio Emilia – argo¬menta –, la scolarizzazione negli asili-nido è al 60 per cento e l’occupazione femminile è al 70 per cento. Ma l’inverno demografico è arrivato anche qui». Il sindaco valorizza anche la capacità della sua città di avere gestito bene l’ingresso di stranieri: in poco più di vent’anni Reggio Emilia è cresciuta da 130mila a 175mila abitanti, con 25mila residenti riconducibili a 120 nazionalità diverse, mentre la cittadinanza italiana è stata riconosciuta a 12 mila persone.
Tuttavia accade anche che le donne straniere che giungono in Italia – come nota in questa discussione Eugenia Roccella – pur provenendo da paesi, più poveri, dove la natalità è ancora molto alta, si adeguano abbastanza rapidamente alla situazione italiana e «assumono gli stessi comportamenti procreativi delle nostre connazionali».
Già, perché la tendenza a fare meno figli, se in alcuni paesi soprattutto occidentali “avanzati” (ma abbiamo ricordato i record negativi del Giappone e della Corea del Sud) si manifesta con indici ben al di sotto dell’equilibrio nel ricambio genera¬zionale, sembra però procedere praticamente in tutti i paesi, mano a mano che le condizioni di vita, di reddito e dei servizi sociali e sanitari, malgrado il permanere di disuguaglianze profondissime, migliorano. Basta pensare che anche il gigante cinese ha conosciuto per la prima volta nel 2022 una diminuzione della propria popolazione: un miliardo e 411,75 milioni di persone con un calo di 850 mila persone, nonostante il fatto che dal 2016 è stata abolita la politica “del figlio unico” adottata per combattere la sovrappopolazione. Qui hanno giocato gli effetti negativi della pandemia (aumento della mortalità) e del rallentamento dell’economia, ma molti osservatori scommettono sul fatto che anche in questa grande realtà è cambiato irreversibilmente l’atteggiamento delle famiglie e delle donne.
Anche un autore di tendenza liberaldemocratica come lo storico Andrea Graziosi, nel suo recente Occidenti e modernità. Vedere un mondo nuovo (2), mette la crisi demografica al centro della sua riflessione sullo sguardo globale che il Covid e la guerra in Ucraina hanno bruscamente modificato creando molte apprensioni. Il plurale del titolo, ambizioso, si riferisce a una «Modernità maggiore» costituita dal nesso Europa-Usa dopo il 1945, e a una «Modernità minore» essenzialmente riferita al blocco ex comunista dell’Europa orientale e della Russia, con il trauma della sua fine nell’89. Il passaggio, in molti contesti violento, dal mondo contadino a quello industriale avvenuto nel secolo scorso ha generato culture che si caratterizzano oggi per la tendenza a procreare meno.
Non entro nella quantità di argomentazioni dell’autore (dalla cultura del narcisismo esaminata da Christopher Lasch, al fatto che negli Usa i fenomeni migratori stanno ormai mettendo in minoranza la popolazione “bianca”, alle dinamiche economiche e geopolitiche che stanno alzando le difficoltà dell’Occidente di fronte a una tendenza “multipolare” in cui aumenta la potenza di stati autocratici). Mi ha colpito il fatto che gli accenni nel testo agli scambi con amiche femministe dell’autore e la consapevolezza che il calo demografico vada attribuito a fattori più culturali che economici, con l’osservazione che proprio le condizioni di maggiore “benessere” si accompagnano al fenomeno, non dia luogo in questo testo a un confronto serio con il pensiero delle donne che da almeno mezzo secolo indica strade diverse alla politica. Come peraltro Graziosi riconosce: rispetto alla crisi del pensiero politico occidentale (dalla Rivoluzione francese alle lotte di classe ispirate da Marx, ai nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi) tutto basato su “soggetti collettivi” più o meno mitizzati, sta – osserva – la «rilevantissima eccezione delle donne, mobilitatesi seguendo un modello originale». Ma poi si cercherebbe invano qualche riferimento più approfondito a questo “modello”, al “nuovo discorso” che il femminismo ha prodotto, esercitando una critica radicale proprio di quelle idee di “soggetto” che hanno fondato la politica maschile sino a oggi.
Motivazioni inconsce
Può venire quindi il sospetto che tutto questo allarme per l’“inverno demografico” che investe l’intero globo, nasconda qualche motivazione inconscia di matrice, appunto, “occidentale” e forse ancor più propriamente maschile. Ciò che fa paura è il cambiamento delle ragioni del mondo per cui l’Europa, per secoli dominatrice dei continenti, conta sempre meno, anche in termini demografici, mentre un destino simile potrebbe toccare all’Impero americano, con la consapevolezza oscura, in aggiunta, che il potere riproduttivo della specie non è più determinato da un ordine patriarcale.
Ci sarebbe peraltro, prima dell’apocalisse (3), il tempo di riflettervi un po’ meglio. Se è vero, infatti, che i demografi prevedono un futuro di arresto della crescita demografica globale, non si tratta proprio di un problema di queste ore. Nel novembre del 2022, a quanto pare, è stata superata sul pianeta la soglia degli otto miliardi di persone (dopo una crescita rapidissima e sconvolgente: nel 1800 sulla Terra viveva meno di un miliardo di abitanti, nel 1950 siamo arrivati a 2,5 miliardi). Le ultime proiezioni delle Nazioni Unite suggeriscono che la popolazione mondiale potrebbe crescere fino a circa 8,5 miliardi nel 2030 e 9,7 miliardi nel 2050; si prevede che raggiungerà un picco di circa 10,4 miliardi di persone durante gli anni 2080 e rimarrà a tale livello fino al 2100. Solo successivamente potrebbe invertirsi la tendenza. Ma chi può prevedere davvero che cosa succederà? La pandemia del Covid ha già inciso sensibilmente, e negativamente, negli anni scorsi su questi indici. Ne verranno altre? Gli esperti purtroppo non lo escludono affatto. Si arriverà a un conflitto atomico?
Per il momento, qui da noi, le stesse forze politiche che gridano contro il calo delle nascite sono impegnate ad agitarsi contraddittoriamente di fronte alla “bomba demografica”, aggravata da guerre e catastrofi climatiche, nel continente che ci sta di fronte sull’altra sponda del Mediterraneo.
Punti di vista femminili
Concluderei riferendo qualcosa di altri recenti punti di vista, non casualmente femminili. E senza dimenticare che esiste in Italia una lunga storia di elaborazioni di matrice femminista su questi temi, dalle ricerche pionieristiche del Griff (Gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile, fondato nei primi anni Settanta da Laura Balbo), ai lavori di Chiara Saraceno, di Chiara Valentini e molte altre (4).
Alessandra Minello, demografa, ha pubblicato l’anno scorso per Laterza Non è un paese per mamme (5). Accanto alla constatazione che le donne, soprattutto quelle poco istruite, meno qualificate, abbandonano in grande misura il lavoro alla nascita del secondo figlio – ciò anche perché in genere guadagnano assai meno del marito o compagno – e all’indicazione delle solite carenze dei servizi per bambini e anziani, Minello insiste sugli aspetti culturali del problema. La tradizionale “divisione dei ruoli” tra il maschio che lavora e la femmina che bada alla casa è ancora molto diffusa in Italia, e «in modo capillare soprattutto al Sud» (una estremizzazione di questa mentalità è venuta dal generale Vannacci, che se la prende contro le femministe “fattucchiere” e pensa che in un mondo non al contrario le donne dovrebbero tornarsene a casa a occuparsi di quello che hanno sem¬pre fatto). Tuttavia, intervenendo nel dibattito di cui abbiamo brevemente riferito tra Roccella, Volpi, Ferrera, e Vecchi, l’autrice si dice ottimista sulla cultura delle nuove generazioni: «I dati ci dicono che le nuove coppie si considerano alla pari a livello di genere, sia per la cura della casa che per l’impegno lavorativo. Anche la visione del tempo è diversa rispetto alle generazioni precedenti: include sì il lavoro, ma vuole anche lasciare spazio al tempo libero» (6). Tendenze influenzate dal Covid, che ha indotto a ripensare l’uso del tempo e le priorità personali. «Non tutto è roseo, però» avverte Minello. Perché il desiderio di mettere al mondo altre creature, che pure secondo i dati raccolti viene affermato da una maggioranza delle coppie, viene poi frenato da diverse paure che si sommano: il riscaldamento globale, la guerra, le incertezze economiche, le incognite lavorative, esperienze familiari negative, ecc.
Insomma, un mondo che non invoglia alla fiducia nel futuro: è così difficile da capire?
Torniamo per un momento alla realtà del lavoro. Un altro libro di un’altra giovane studiosa sta facendo discutere, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, di Francesca Coin (7). Nell’introduzione di questo testo ne viene ricordato un altro, il best seller di David Graeber Bull¬shit Jobs (8), che già prefigurava in qualche modo la tendenza alle “grandi dimissioni” esplose dopo il Covid in varie parti del mondo. In quel libro si documentava che circa il 40 per cento delle persone consultate ritenevano il proprio un “lavoro del cavolo”, cioè inutile, stressante, e anche mal retribuito. Un più recente sondaggio Gallup, citato dall’autrice, alza all’80 per cento il numero di coloro che detestano il proprio lavoro.
Questo non elimina del tutto il paradosso per cui – notava ancora Graeber – le persone restano al lavoro, e anzi tengono al riconoscimento sociale che lavorare comporta. Negli ultimi tempi però questo paradosso comincia a sfaldarsi. E anche qui ha giocato il trauma della pandemia. Coin prende in esame, oltre alle tendenze globali, la situazione italiana, passando in rassegna tutti i settori – sanità, ristorazione, grande distribuzione – in cui si sono registrate dimissioni anomale, dando voce a alcuni dei protagonisti e delle protagoniste di queste scelte, spesso drammatiche. Per giungere infine a quello che definisce la «she-session», cioè le dimissioni dal lavoro di donne causate in modo particolare dalla durezza delle discriminazioni attuate contro le lavoratrici.
Le testimonianze raccolte in quest’ultimo capitolo restituiscono una realtà disperante: chi lavora in situazioni dequalificate (bassi contenuti dell’attività, precarietà, basse retribuzioni, varie esperienze di mobbing quando non di molestie) raggiunge rapidamente uno stato di stress che rende preferibile accettare il rischio della disoccupazione. Ma non migliore è molto spesso la situazione di chi ha il “privilegio” di svolgere una attività fonte di soddisfazione professionale e di interesse culturale. Qui il racconto è quello di una pressione continua a dedicare al lavoro tutto il proprio tempo, anche quello teoricamente “libero”, senza preoccuparsi di orari, straordinari, di norme sindacali e contrattuali, e di avere una vita “privata”, proprio perché si ha il grande privilegio di non svolgere una mansione tipo «servire ai tavoli o fare l’operaio nella logistica».
La conclusione che ne trae l’autrice è che le “grandi dimissioni” sono «la cartina di tornasole dello scollamento tra i bisogni della società e le finalità del sistema produttivo. In assenza di una prospettiva di trasformazione, questa disaffezione promette di continuare anche se il numero delle dimissioni dovesse ridursi, come epitome dell’indisponibilità a un modello produttivo incapace di offrire un futuro diverso dal collasso climatico e dalla guerra sociale».
Un’altra filosofia
Credo che le ben più radicali “dimissioni” dalla procreazione possano esprimere una richiesta ancora più urgente e drammatica di un cambiamento altrettanto radicale del modo in cui si è costretti a vivere. Per capirlo forse, anche da parte della politica, comunque ideologicamente schierata, ci sarebbe bisogno di un ripensamento davvero profondo.
E qui, un ultimo consiglio di lettura: Trame di nascita. Tra miti, fi¬losofie, immagini e racconti, della filosofa Rosella Prezzo (9). Un altro modo, direi, di guardare alla nascita – dalla mitologia greca fino alle innovazioni scientifiche contemporanee, che hanno acceso il dibattito sulla procreazione medicalmente assistita, sulla Gestazione per altri, sulla prospettiva di una umanità sempre più costruita con innesti macchinici (10) – di cui mi ha interessato soprattutto l’osservazione filosofica centrale. La grande influenza di un pensiero come quello di Heidegger sulla filosofia contemporanea, con l’idea che per l’uomo gettato nel mondo comune è la morte a costituire essenzialmente il rapporto di ognuno con il proprio essere e esserci, potrebbe essere l’ultima manifestazione di una tradizione maschile che raramente si è soffermata sulla nascita, nella sua concretezza di desiderio, corpi, menti.
Non si è gettati nel mondo, ma si viene a lungo concepiti e poi, nella maggioranza dei casi, qualcuno si prende cura di noi, ci nutre, ci insegna a parlare, a camminare ecc. Prezzo dice che ora le cose sono cambiate, soprattutto per l’influenza di pensatrici come Hannah Arendt e María Zambrano, che hanno ripensato il pensare partendo diversamente dalla nascita. Oggi, scrive, «il rapporto tra filosofia e nascita sembrerebbe essersi riallacciato», vari autori ne scrivono, si moltiplicano testi accademici, «ma in essi continua a scomparire, attraverso varie strategie, il corpo e il soggetto generante, oltre al duplice volto del nascere». Nell’ «epoca della sua riproducibilità tecnica», come recita l’ultimo capitolo del libro, «c’è da chiedersi se non stiamo assistendo, in un certo senso, anche a una perdita di aura della nascita».
Forse il dibattito sull’“inverno demografico”, evidentemente concentrato sulle prospettive negative e mortifere (intere nazioni saranno estinte?) più che sulla direzione dei desideri e l’origine delle sofferenze in un mondo di 8 miliardi di persone, dovrebbe provare a ripartire da qui.
Note
1 Alessandro Rosina e Roberto Impacciatore, Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi, sfide, Roma, Carocci, 2022.
2 Andrea Graziosi, Occidenti e modernità. Vedere un mondo nuovo, Bologna, il Mulino, 2023.
3 Il pessimismo demografico catastrofico potrebbe forse essere messo accanto alle teorie più negative e antisociali della galassia queer. Vedi Lorenzo Bernini, Apocalissi queer. Elementi di teoria antisociale, Pisa, Edizioni ETS, 2013.
4 Per citare solo alcuni testi: Laura Balbo, Il lavoro e la cura. Imparare a cambiare, Torino, Einaudi, 2008; Chiara Saraceno e Manuela Naldini, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni, Bologna, il Mulino, 2011; Chiara Valentini, O i figli o il lavoro, Milano, Feltrinelli, 2012; Gruppo femminista del mercoledì, La cura del vivere, supplemento a Leggendaria 2011, n. 89, anche sul sito DeA: https://www.donnealtri.it/2011/10/la-cura-del-vivere/.
5 Alessandra Minello, Non è un paese per madri, Roma-Bari, Laterza, 2022.
6 Il lusso di diventare madre, intervista di Sara Erriu a Alessandra Minello, su La lettura del Corriere della Sera, 13 agosto 2023.
7 Francesca Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Torino, Einaudi, 2023.
8 David Graeber, Bullshit Jobs, Milano, Garzanti, 2018.
9 Rosella Prezzo, Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti, Bergamo, Moretti &Vitali, 2023.
10 Sul tema, vedi Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 2018.