La violenza, che non è mai scomparsa, si fa sempre più vicina.
Con la guerra, il fondamentalismo e il sessismo che affollano la scena globale. Una scena tragica, connotata da asimmetrie di dominio e di potere: basta pensare alla proposta, finora respinta, dello scambio di cinquemila e più palestinesi detenuti nelle carceri israeliane con i 220 ostaggi israeliani del massacro del 7 ottobre. O alla terribile conta quotidiana delle vittime da una parte e dall’altra.
Ma queste asimmetrie non cancellano la presenza delle donne.
Magari non ha spiegazioni, magari dietro non c’è un disegno politico e però Hamas finora ha reso solo ostaggi femminili. Per prime, vengono liberate per “motivi umanitari” madre e figlia, le americane Judith e Natalie Raanan.
Poi le due israeliane del kibbutz Nir Oz. La ottantacinquenne Yocheved Lifshitz ha salutato i suoi rapitori, abiti e maschera nera, con la parola “Shalom”, pace. Sindrome di Stoccolma? Comportamento imposto dal fatto che il marito di Yocheved si trova ancora nelle mani di Hamas? Se ci è riuscita lei a dire “Shalom”, non dovrebbe creare scandalo che la parola risuoni per Kiev e per Gaza fra di noi che siamo qui come dicono “comodamente seduti nelle nostre poltrone”.
Invece scandalo lo crea. È piuttosto la strada della vendetta a garantire di essere risolutiva.
Ancora sulle donne. Ismail Haniyeh, dirigente di Hamas (ho letto che è padre di tredici figli) viene intervistato da Rasha Nabili, giornalista egiziana della televisione degli Emirati Arabi, Al Arabya. “Il tipo di attacco effettuato da Hamas non è un’operazione regolare… motivo per cui alcune persone si chiedono: come vi aspettavate che avrebbe reagito Israele?” attacca l’intervistatrice senza velo mettendo Ismail Haniyeh “più volte in difficoltà” (Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 25 ottobre).
Il video ha grande eco nel mondo arabo.
E sono tre le donne israeliane rapite le cui immagini sono state diffuse dai canali social di Hamas. Criticano il premier Netanyahu, gli gridano di pagare il fallimento politico, di sicurezza militare e dello Stato. “Liberaci tutti, adesso!”
E Netanyahu: “Una crudele propaganda psicologica”.
Nel frattempo, l’uso della forza e quello del terrore su Bucha, sul rave di Supernova, sul campo profughi di Jabalia producono morte e dolore piuttosto che spingere alla ricerca della mediazione. Gli sgozzamenti, i corpi esposti, le vittime estratte dalle macerie esigono rivincita.
Viene steso un elenco di domande: Perché lo Shabbat di sangue dovrebbe fare più effetto dell’apartheid di decenni? Perché non c’è empatia per gli israeliani innocenti che sono stati assassinati e rapiti (dalla Lettera firmata tra gli altri da Michael Walzer, Cynthia Ozick, David Grossman)? Perché l’antisemitismo ricompare cancellando la memoria dell’Olocausto?
E un elenco di risposte: No, il 7 ottobre è un atto di guerra e non di terrorismo (ma la guerra non contempla mai alcuna pietà?). Non c’entra l’empatia rispetto al comportamento degli israeliani. C’è un popolo che ha l’acqua razionata da decenni. Quattro pietre d’inciampo bruciate non sono il segnale dell’antisemitismo che sta tornando.
Esiste la possibilità di ribaltare questa situazione? Il sogno che dal nuovo disordine mondiale nasca un nuovo ordine, speriamo migliore?
Ad affermarlo sono le ebree, arabe, cristiane che tre giorni prima dell’attacco di Hamas avevano marciato insieme, e che dopo la strage del 7 ottobre sono riuscite a dire: “Nonostante la rabbia e il dolore di fronte agli atti criminali e imperdonabili commessi da Hamas, compresi i bombardamenti incessanti di città di tutto Israele, non dobbiamo perdere la dignità umana. Anche nelle situazioni più difficili, è nostro obbligo di madri, donne, esseri umani e come nazione intera non perdere i valori umani fondamentali”. (Il testo integrale su DeA ).
E a Parigi, per le femministe europee impegnate con le donne israeliane e palestinesi “il dolore degli altri è il nostro dolore”. “Fermatevi – hanno aggiunto – la guerra non è la risposta. Israele, le madri di Gaza, il popolo ucraino, tutti stiamo attraversando l’orrore”. (Su La Repubblica del 22 ottobre)
Sono importanti queste donne e pur “nel disaccordo e nelle differenze” come hanno scritto femministe dell’est ucraine, russe e polacche, e di altri paesi, riunite in un convegno a Kharkiv nel maggio scorso, possono cambiare la logica della violenza?