Approfitto del privilegio di questo spazio libero per unirmi anche io al ringraziamento, molto sentito, rivolto a Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco, per aver contribuito con le altre e gli altri del manifesto a conservare e rilanciare il giornale.
Del quale si possono condividere o meno scelte politiche, analisi, opinioni, linguaggi, ma mi sembra indubitabile che queste pagine, e la presenza in rete della testata, sono una ricchezza grande non solo per chi partecipa nelle più diverse forme al travaglio di ciò che resta della sinistra, in questo paese e altrove, ma direi per chiunque abbia sinceramente a cuore il ruolo dell’informazione e della cultura nella vita di ognuno.
Per cui, i più sinceri auguri a chi – Andrea Fabozzi, Micaela Bongi, Chiara Cruciati – ora assume il compito di guidare la straordinaria impresa.
Norma riassumendo la sua esperienza ha aperto una riflessione, ripresa da Luciana Castellina, sul senso della parola “comunista” che è nella testata, e della sua relazione con ciò che definiamo “pensiero critico”. Credo di aver scritto qui che, avendo al momento della “svolta” di Occhetto votato a favore di quella scelta, ma avendo in seguito pensato che fu un mio errore di valutazione, ho vissuto come un imprevisto benvenuto il tornare a scrivere su un giornale che non ha voluto rimuovere quel nome, quella radice.
Voglio anche ripetere, per quel che vale, che resto convinto della bontà delle intenzioni di Occhetto (e non mi si dica che di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno: se non si parte almeno da buone intenzioni all’inferno si finisce inesorabilmente. Anzi, vi si abita già). Ma il metodo fu sbagliato – il metodo “è sostanza”, dissero allora amiche femministe nel partito – e produsse una frattura di cui ancora non sono stati, per così dire, riparati i danni.
Uno dei danni maggiori è stato proprio, credo, l’appannarsi sempre più denso della capacità di usare criticamente il pensiero. Semplificando forse troppo: rimuovere quella parola in fondo sottintendeva che i comunisti italiani non erano mai stati davvero “comunisti”, erano molto meglio di tutto il mondo “comunista” sovietico: potevano conservare nel cuore l’affetto per quella parola che aveva riempito le loro vite (come disse uno dei partigiani della Bolognina). Ma eliminare quel nome carico di tragedie e di un epocale fallimento sarebbe stato in fondo un chiarimento, un dire di se stessi la verità.
Ecco il grave equivoco. Proprio perché sarebbe stato vitalmente importante riflettere più criticamente di quanto non fosse mai stato fatto sul significato e sulla storia del nome non si doveva rimuoverlo.
Se è stato possibile, fino agli orrori dello stalinismo, derivare dall’idea comunista un pensiero tanto dogmatico da legittimare tragiche violenze, bisognava – e bisogna ancora – risalire anche alle ambiguità che quei dogmatismi non hanno arginato.
Nello stesso tempo non si doveva perdere la forza della radicalità critica da cui è partita l’idea della storicità, e quindi della possibilità di modificare e di superare quell’assetto sociale, economico, simbolico che chiamiamo capitalismo.
Non vedrei quindi in alternativa non dimenticare la parola comunismo (e anche naturalmente socialismo) e coltivare il più possibile un pensiero critico.
Certo sapendo bene, ma qui mi fermo, che la critica del capitalismo, con tutto ciò che lo lega a secolari retaggi patriarcali, e oggi lo rivela compatibile con ideologie autoritarie, reazionarie, belliciste, e anche francamente criminali, richiede di essere arricchita da idee e da pratiche politiche che cercheremmo invano nella pur multiforme tradizione comunista e socialista.