Questo intervento di Letizia Paolozzi è stato presentato al convegno “Identità, genere, sesso. Diritti e libertà”, organizzato dall’Istituto Gramsci Siciliano, con l’associazione Proteo Fare Sapere Sicilia e dalla Biblioteca delle donne UDI Palermo il 31 maggio scorso. Altre notizie qui.
Se vogliamo provare a strecciare il nodo della gestazione per altri, secondo me bisogna mettere le mani avanti e constatare che si torna a parlare della madre.
Si torna a parlarne con una curiosa oscillazione nella discussione pubblica tra la donna che partorisce e il simbolico materno.
Certo, questa sorta di rinascita non dipende solo dall’uso (e dall’abuso) che ne fa questo governo: “Sono una madre, su Cutro ho la coscienza a posto” ha dichiarato in Senato la presidente del Consiglio invitando ad avere fiducia nella verità di cui sarebbe portatrice colei che è capace di mettere al mondo e ancora, durante l’adunata degli Alpini: “Oggi è la festa della mamma, ma noi abbiamo sempre un’altra mamma che è la Patria”.
Oppure dalla sua utilizzazione nei media (il podcast “Mamma dilettante” della conduttrice di “Dazn” Diletta Leotta verrà distribuito dal “Corriere della sera”)
Secondo me alla figura materna ci si è aggrappati durante il Covid (lei tornava a essere indispensabile nella casa dove tutti/e eravamo rinchiusi) e in seguito, con le paure per il futuro suscitate dal rumore delle armi della guerra in Ucraina, dal vicino rischio di un massacro nucleare.
In un periodo tanto confuso, si va in cerca di una figura forte e protettrice (così la storica Anna Bravo), potente perché capace di smontare la violenza. Il “Noi” donne, con la possibilità di dare la vita, con il potere determinato dalla disparità biologica (lo storico Jean-Pierre Vernant che pare non schiodarsi dal suo sesso, ha detto: “Partorire: la prova virile più compiuta della donna”), con il pregio di contrastare la morte.
Madre, dotata generalmente di sentimenti positivi: tenerezza, cura, compassione, condivisione in una società individualista al massimo, dove si risponde all’odio con l’odio, dove domina il “grande cannibale” del capitalismo e della postglobalizzazione.
Nel riflettere sulla GPA bisogna tenere a mente questi elementi oltre, naturalmente, al cambiamento veloce prodotto dalla scienza e dalle biotecnologie.
Senza tralasciare la questione della natalità e della denatalità. Il governo ha tenuto sul tema gli “Stati generali”, panel tutto al maschile, presente il Pontefice e la premier. Mentre per il Papa “la natalità così come l’accoglienza non vanno mai contrapposte perché sono due facce della medesima medaglia e ci rivelano quanta felicità c’è nella società. Una comunità felice sviluppa naturalmente i desideri di generare e di integrare”, Giorgia Meloni vuole rendere la gestazione per altri reato universale e propone la sua molto tradizionale idea di famiglia.
Ora, la tendenza alla diminuzione delle nascite, “l’inverno demografico” si verifica in tutto il mondo. La punta massima la raggiungono i paesi dell’estremo Oriente: nella Corea del sud siamo a 0,8 figli per donna; quindi, gli italiani devono andare orgogliosi del loro pur basso 1,2/1,3 figli per donna.
Piuttosto che recuperare una natalità molto lontana, il punto sarebbe di governare la denatalità, tenendo conto che qualsiasi intervento per favorire le nascite deve fare i conti con la libertà femminile. E con il lavoro femminile (che manca), con la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro. Inoltre nessuno ricorda quanto importante sia valorizzare gli uomini nel lavoro di cura.
Da aggiungere che in Italia abbiamo il dimezzamento dei matrimoni, la difficoltà a investire nella coppia, nel desiderio, nel costruire delle relazioni.
Se la figura della madre torna in primo piano, sappiamo grazie al femminismo che fare o non fare un figlio è una scelta personale. Il destino delle donne non consiste nel fare figli e avere un bambino non è un obbligo. “La concezione della differenza sessuale va sganciata dal simbolico materno” secondo la filosofa Stefania Tarantino. D’altronde, il femminismo della differenza ha lavorato su quell’“ambiguo materno” dove si sovrappongono desiderio, rifiuto, possesso.
Per grandi linee, per molto tempo sesso e riproduzione si sono intrecciati, poi è intervenuta la contraccezione; dopodiché, nel 1978, grazie alle tecniche riproduttive, nasce Louise Brown.
Da quel momento alla riproduzione naturale si affianca la riproduzione artificiale rimediando così alla sterilità, evitando le patologie genetiche ma contemporaneamente cambiando il concetto di famiglia, di genitorialità, di filiazione. E sollevando tante domande: è giusto modificare la natura? Cosa significa essere madri e madre è solo quella biologica? Ma non è pericoloso questo “oblio del padre” (denunciato dalla psicoanalista Manuela Fraire)? E non si dovrebbe appunto ripensare alla paternità in oscura competizione con la potenza materna?
Quanto alla gestazione per altri, le domande ruotano intorno alla “nuova messa a disposizione del corpo femminile” (la filosofa Luisa Muraro). Corpo femminile esaltato nella funzione materna dal sovranismo e dal nazionalismo (dei paesi dell’Est); imprigionato dalle biotecnologie; portato al mercato dal sistema neoliberista (“Del mio corpo faccio ciò che voglio”), oppure difeso fino alla mistica della maternità.
Di fronte a questo affollarsi di questioni è comprensibile che la gestazione per altri si presenti come tema divisivo per eccellenza.
Le posizioni si tendono, si polarizzano fino a disegnare due schieramenti tra il “pro” e il “contro” pieni di certezze astiose, che condannano come relativismo strumentale ogni dubbio critico.
Per quanto mi riguarda preferisco tenermi i dubbi e non avere troppe sicurezze.
Sì, mi lascia perplessa la separazione della gravidanza (intesa come relazione biologica e psicologica che si instaura tra la madre e il feto nel periodo perinatale) dalla maternità, della generazione dalla fecondità.
E sì, ascolto le obiezioni di chi difende la possibilità di una gestazione altruistica.
Giusto ribellarsi all’idea che il corpo della donna sia un semplice contenitore di materiale biologico altrui, tuttavia non credo si possa negare – almeno io non me la sento – ai soggetti coinvolti in questo processo autonomia di giudizio sul proprio potere riproduttivo. Che non significa libertà senza vincoli: perché il corpo, ha ragione la filosofa Francoise Duroux, non è qualcosa di cui possiamo disporre a nostro piacimento.
E’ anche vero che il dono, offerto dall’altruismo e dalla generosità femminile, nasce in risposta al desiderio di genitorialità delle coppie infertili (omo o etero). Possibile che le donne si trasformino nella preda del desiderio progettato da altri e realizzato dalle biotecnologie che autorizzano ciò che ancora dieci anni fa era impensabile?
Per tutte queste ragioni, non sono sicura che sia una scelta buona quella di vietare invece di regolare, invece di mettere ordine nel caos dei viaggi all’estero, nell’insicurezza del genitore “intenzionale”.
Non funziona l’idea di proibire per non riconoscere, di scoraggiare per non legittimare, usando leggi, ordinanze, decreti e lentezza dei tempi e rinvii burocratici così come è avvenuto per i naufraghi di Cutro che secondo il governo avrebbero fatto meglio a non partire dall’Afghanistan.
Oppure, mettendo di mezzo la circolare del ministero dell’Interno che chiede ai prefetti di invitare i sindaci a non trascrivere più i certificati di nascita ottenuti all’estero in cui viene riconosciuto il genitore biologico e quello non biologico; la risoluzione di una commissione del Senato ha bocciato la proposta di regolamento europeo che si proponeva di uniformare le procedure di riconoscimento dei figli nati da surrogata.
Così il destino dei bambini concepiti con la GPA si trasforma in un interrogativo squassante.
Certo, la rigidità della norma tranquillizza ma paradossalmente acuisce le convinzioni opposte. E non è sicuro che aiuti la buona vita delle persone attraverso il loro disciplinamento con la minaccia e la proibizione.