BEAU HA PAURA – Film di Ari Aster. Con Joaquin Phoenix, Zoe Lister, Patti Lupone, Armen Nahapetian, Amy Ryan, Nathan Lane, Kylie Rogers, Co-Produce A24 USA 2023. Fotografia di Paweł Pogorzelski, Musiche The Axan Cloack.
Dal punto di vista del linguaggio “Beau ha paura” è un film stranissimo e che dura tre ore. Questo è il terzo film di Ari Astor (New York 1986) che, con i suoi precedenti, aveva esplorato il genere horror con successo in “Hereditary – le radici del male” del 2018 e “Midsommar – il villaggio dei dannati” del 2019.
Durante tutto il tempo il film cambia stile e tono a seconda delle persone in cui Beau si imbatte e con le quali interagisce. Lo si può definire hipster o arthouse, a mio avviso Beau ha paura è un film più composito che post-moderno. Tutto ciò che vediamo “attorno” al protagonista, dai luoghi alle persone, è o immaginato, o temuto, o ricordato, oppure può essere anche reale.
Martin Scorsese ama molto Ari Aster: «Una delle più straordinarie nuove voci nel mondo del cinema…I suoi film sono inquietanti e profondamente scomodi – afferma in un’intervista – ma con un controllo formale impressionante».
Il quartiere urbano dove vive Beau è una sorta di incubo: un coacervo di “diversi” che, nella sua paranoia, sembra ce l’abbiano tutti con lui. Il nudo accoltellatore, la ragazza tatuata, il ballerino solitario, quello che protesta per i rumori e lascia continuamente foglietti sotto la porta e così via.
Beau Wasserman va da uno psicoanalista che è un ometto paffuto un po’ strano perché sembra suggerirgli risposte e sensazioni e gli dà anche delle pasticche da ingerire «rigorosamente con acqua». A causa di una nascita difficile Beau è cresciuto senza padre, ha avuto un’infanzia agiata ma difficile. Gli verrà spiegato che il padre morì nell’atto del concepimento a causa di una malattia del cuore ereditaria.
Per celebrare l’anniversario della morte del padre la madre organizza tutti gli anni una cerimonia e vorrebbe che Beau tornasse a casa per essere presente in quell’occasione. Ma una serie di circostanze avverse faranno si che Beau perderà l’aereo e si troverà senza chiavi di casa e con la carta di credito esaurita… che fare?
Le paure di Beau sono più fobie che reali paure: sospetti, angosce, sensi di colpa, una miscela esplosiva di nevrosi ossessive.
I film diventa quindi una sorta di viaggio, un pellegrinaggio surreale e grottesco, un’odissea verso la casa della madre che non si riesce a raggiungere perché ogni volta intervengono fattori esterni e persone minacciose che gli intralciano il cammino.
Passerà dalla casa della coppia suburbana middle-class protestante – che però nasconde atroci segreti – a una fuga nel bosco dove scoprirà un mondo fiabesco, in un incrocio tra “Il mago di Oz” e “Alice nel paese delle meraviglie”, ottenuto sovrapponendo cartoni animati. Questa è, a mio avviso, la parte più bella del film, è la più poetica: l’idea che gli orfani – veri o presunti – si autorappresentino in un teatro nel verde, mi è piaciuta molto.
Ma il viaggio continuerà fino a ritrovare la casa della madre dove sembrerebbe che il funerale si sia appena concluso. Ogni ulteriore racconto è inutile perché la caratteristica del film è il delirio cinematografico, una continua addizione di suggestioni e un’indistinta celebrazione del proprio ego. Le scenografie sono anch’esse complesse, dal quartiere urbano degradato e malfamato, ai fitti boschi, dalle casette suburbane alle case di design.
Joaquin Phoenix si sente perfettamente a suo agio nell’interpretare questo personaggio, la “diversità” lo esalta così come ha già fatto in molti film fino a vincere l’Oscar come migliore attore protagonista per “Joker”.