RAPITO – Film di Marco Bellocchio. Con Enea Sala, Paolo Pierobon, Leonardo Maltese, Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi, Fabrizio Gifuni, Filippo Timi, Italia 2023.
Come ha fatto altre volte Bellocchio per fare un suo film parte da una storia vera. In questo caso lo ha ambientato negli ultimi anni del Potere temporale del Papato, tra Bologna e Roma.
Nel 1555 il pontefice Paolo IV Carafa promulgò la bolla Cum nimis absurdum con la quale istituiva i ghetti sui territori pontifici. L’anno successivo anche Bologna segregò la comunità ebraica in un’area compresa fra le attuali via Zamboni, via Oberdan, via de’ Giudei, via dell’Inferno e vicolo San Giobbe.
La segregazione intendeva evitare i contatti fra i cristiani e gli ebrei, limitandoli ai soli rapporti economici che avevano luogo nei banchi durante il giorno. Furono innalzate muraglie e montati cancelli e portoni per regolare gli accessi. Alla fine del Settecento la comunità ebraica lentamente si ricostituì dopo la dispersione seguita all’espulsione del 1593. Solo nel 1868 sarà presa in affitto una sala in via De’ Gombruti e una decina di anni dopo nell’ala dello stesso edificio sarà inaugurato un nuovo più grande luogo di preghiera.
Dunque gli anni ‘50 dell’Ottocento erano un’epoca i cui i cancelli del ghetto non venivano più chiusi, ma l’antisemitismo era ancora molto forte nell’aria e prendeva forme diverse. I preti facevano proselitismo in tutti i modi, più o meno leciti, nei confronti della popolazione israelitica specie ora che sentivano minacciato il loro regno.
Fece scalpore, anche nella stampa estera ,il caso del rapimento decretato da Pio IX (il bravo Paolo Pierobon) di un bambino ebreo bolognese battezzato di nascosto dalla sua tata cristiana che sostenne poi, fosse in fin di vita.
“Rapito” inizia a Bologna la sera del 23 giugno del 1858 quando la Gendarmeria dello Stato Pontificio, mandata dall’inquisitore di Bologna, padre Pier Feletti (interpretato da Fabrizio Gifuni), si presentò alla porta della famiglia ebrea di Salomone Momolo Mortara (interpretato da Fausto Russo Alesi) e di sua moglie Marianna Padovani (interpretata da Barbara Ronchi), per prelevare il sesto dei loro otto figli, Edgardo (il bellissimo Enea Sala), il bambino battezzato.
Tutta la prima parte del film si svolge attorno a piazza Maggiore dove San Petronio è usato come fondale di un melodramma lirico. Belle sono le immagini – prevalentemente di interni del vicino quadrilatero del ghetto – scarne e cupe dei rituali ebraici, degli Shabbat in famiglia, dei Shemà-Israel, dei giochi e delle risate dei bambini….
I genitori disperati, coadiuvati dalla comunità ebraica bolognese, tentano qualsiasi strada e qualsiasi approccio per riavere Edgard a casa: il padre va perfino a parlare di persona con l’Inquisitore, ma tutto è inutile. Il bambino viene portato pima a Senigallia (dov’era nato Giovanni Maria Mastai Ferretti diventato poi papa Pio IX) poi a Roma nella Casa dei Catecumeni – istituzione nata a uso degli ebrei convertiti al cattolicesimo e mantenuta con i proventi delle tasse imposte alle sinagoghe dello Stato Pontificio – dove c’erano tutti ragazzini ex ebrei da instradare nella religione cattolica. L’unica salvezza per questi bambini di rientrare in famiglia consisteva in un vero e proprio ricatto: l’intera famiglia si sarebbe dovuta convertire.
Il film fin qui ha mantenuto un buon ritmo, il bambino è meravigliato di tutto, e vive ancora una doppiezza tra il ricordo della vecchia religione e il nuovo credo presentato come verità assoluta e salvazione eterna.
È da qui in poi che il film sembra quasi cambiare registro: si arricchisce di visione oniriche (ad esempio Edgardo che schioda Gesù dalla croce) e di situazioni grottesche: Pio IX è talmente caricaturale che sembra una vera e propria macchietta. Nel passare degli anni anche Edgardo ragazzo, nell’interpretazione di Leonardo Maltese, ormai invasatosi nella religione cattolica e diventato sacerdote, non è più alla stessa altezza.
Tutto il finale, dalla ridicola breccia di Porta Pia in poi assume le caratteristiche di una farsa grottesca, coadiuvato da una musica martellante che intenderebbe amplificare l’angoscia.
Una cosa strana, che mi ha colpito è che il regista abbia evitato di riferirsi ad abusi sessuali; l’unica allusione ambigua è nello sguardo di adorazione che ha il goffo Edoardo nei confronti del Papa Re.
Le tematiche care a Marco Bellocchio – la Chiesa, la Famiglia, lo scontro col Potere – sono qui declinate e viste con gli occhi, di un bambino che viene inizialmente atterrito e poi suggestionato a tal punto che finirà per aderirvi in maniera totale, con un rigore tutto ebraico.