Ho vaghi ricordi scolastici sui i “cruscanti”, gli accademici della Crusca o loro seguaci, che non godevano di buona fama, almeno tra le persone che si pensavano più in armonia con i tempi nuovi. Considerati – lo ricorda il dizionario Treccani – sostenitori dell’arcaismo e del purismo in fatto di lingua. La purezza può essere considerata – con qualche circospezione – una cosa anche buona. Ma con l’arcaismo è più difficile. Se oggi ci rivolgiamo a qualcuno con un vossignoria, forse non commettiamo un errore linguistico, ma quel signore o signora ci guarderà nel migliore dei casi con curiosità.
Eccoci al punto. Come cambia la lingua quando dobbiamo nominare i sessi?
Ha fatto notizia ieri la risposta a diversi quesiti – tra cui uno della Cassazione sul linguaggio giuridico – di questo genere (e qui inciampiamo nella parola genere, che pur essendo maschile, pretende di includere ambo i sessi e moltissime altre cose variamente declinate) che proprio l’Accademia della Crusca si è decisa a dare in un comunicato abbastanza articolato comparso sul suo sito ufficiale 1).
Già il titolo è un programma, leggermente provocatorio: Un asterisco sul genere. Si potrebbe aprire un trattatello buro-teorico sulla problematica intellegibilità di questo titolo, giacchè la parola asterisco ha diversi significati e non meno ne evoca la parola genere. Come lo stesso comunicato cruscante si diverte a ricordare.
Nel testo – vale la pena di leggerselo direttamente, non mi ci soffermerò più di tanto – si dice che la Crusca non ha alcun potere normativo sulla lingua, oggetto/soggetto che sfugge a farsi regolare facilmente. Epperò – si aggiunge non so se con invidia o riprovazione – esistono in Francia e Spagna, paesi cugini di cui non si dimenticano le antiche dominazioni, istituzioni simili come l’Académie Française e la Real Academia Española, che invece hanno a un “potere di indirizzo politico”.
In ogni caso il parere della nostra Crusca si espone al rischio di essere considerato, se non arcaistico (ho verificato che questa parola esiste) quantomeno un po’ conservatore. Infatti né l’asterisco, né la schwa, né tantomeno le desinenze in “u” ( es: caru tuttu per evitare il maschile plurale, tutti, o il femminile tutte, escludendo chi non si riconosce nei due sessi o generi) vengono considerate strade percorribili per un corretto uso, soprattutto scritto, dell’italiano.
Devo confessare, a rischio di essere iscritto in qualche esecrabile partito passatista e sessista, che sarei abbastanza d’accordo. Ma non sulla soluzione accomodante, e non del tutto sincera – mi permetto di dire – su cui l’accademia insiste: non bisogna avere imbarazzo a usare il maschile plurale per designare uomini, donne, e tutt* gl* altr* (ahimè) giacchè nella nostra lingua questo “genere grammaticale” avrebbe un “carattere non marcato”, e potrebbe essere considerato, quindi, generosamente “inclusivo”.
Che male si fa a dire “stasera vengono degli amici” pensando anche alle amiche?
Però leggiamo questa frase del testo, firmato da un professore maschio, che cita a un certo punto una donna autorevole, la «accademica Maria Luisa Altieri Biagi (La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 173), una dei “maestri” della linguistica italiana (usiamo intenzionalmente il maschile plurale, che in questi casi, a nostro parere, è quasi una scelta obbligata per indicare un’eccellenza femminile in un ambiente a maggioranza maschile)».
Ahi ahi, caro professore, questo sarebbe il maschile plurale “non marcato”?
Chissà perchè mi viene in mente quella vecchia provocazione di Roland Barthes: la lingua è fascista. (Ma non diciamolo a Giorgia Meloni).
1) In realtà il parere della Crusca che ha fatto notizia una settimana fa è più specifico sul linguaggio giuridico: L’Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione. Ho commentato un testo precedente che però si esprimeva negli stessi termini sull’uso generale delle alternative al maschile plurale, come asterisco, schwa ecc.