La violenza più disumana spesso si accompagna alla stupidità che si inabissa nel ridicolo. “È vietato ballare lo swing!”: cartello tra le immagini proiettate durante una conferenza che ci ha ricordato, mercoledì (1 febbraio) scorso nella biblioteca del Forum austriaco di cultura di Roma, il significato della musica sotto la dittatura nazista.
La mitteleuropa era la culla della tradizione musicale: da Bach a Mozart, Beethoven, Schubert e i romantici, Wagner, fino a Mahler e Richard Strauss. Hitler era appassionato di musica e non pochi musicisti dell’epoca, a cominciare da Strauss, si illusero che il regime avrebbe favorito quest’arte. Invece con la distinzione tra arte “sana” e “degenerata” – ha ricordato Orietta Caianiello, pianista e studiosa – e la condanna non solo del Jazz e dei suoi musicisti neri (disegnati come scimmie nei manifesti nazisti), ma delle opere di Shömberg, Berg, Weill, Eisler, Strawinskij (non ebreo ma “selvaggio”) e persino di Mendelssohn si produsse una desertificazione intellettuale. I musicisti ebrei che riuscirono a emigrare continuarono a creare negli Usa, in Oceania, Palestina, Sud America e altri paesi.
L’aspetto più atroce furono le vite spezzate dei e delle tante che rimasero e finirono nei campi di sterminio. Ma la doverosa memoria della Shoah – ha detto la presidente della Società delle letterate Elvira Federici, tra le promotrici dell’evento – è anche una “ricerca della bellezza” che la musica è riuscita a produrre persino nei campi di prigionia.
Il racconto di Caianiello è stato punteggiato da immagini e – cosa toccante – dall’ascolto di alcune registrazioni d’epoca.
Per esempio il coro e le note dell’opera per bambini Brundibár, del compositore ceco Hans Krása, nella città-ghetto di Terezin (Theresienstadt) dove erano state concentrate decine di migliaia di ebrei, tra cui numerosissimi bambini. C’erano intellettuali e artisti che animarono una attività culturale e musicale ricca, valorizzata fino a un certo punto dagli stessi gerarchi nazisti. Consolidando l’illusione della sopravvivenza. Ma moltissimi ebrei perirono negli ultimi anni di guerra nella stessa Terezin, o deportati in altri campi, come Auschwitz, dove morì Krása.
Al centro dell’iniziativa c’era la figura di Alma Rosé. Una storia insieme di emancipazione e libertà femminile e di partecipazione alla vita musicale più raffinata, fino alla tragedia dei campi. Il padre Arnold Rosé era un famoso violinista a capo dell’altrettanto famoso Quartetto Rosé. Una famiglia imparentata con i Mahler. Alma seguì le orme del padre come violinista, ma a un certo punto volle emergere con autonomia e creò un’orchestra di sole donne, da lei dirette, specializzata nella musica viennese “leggera”: conquistò il pubblico austriaco e un po’ di tutta Europa. Ma dopo l’annessione del suo paese alla Germania di Hitler cominciò un calvario che finì per condurla a Auschwitz, dopo aver salvato e accudito il padre. La sua forza d’animo e il rigore assoluto le permisero di creare un’altra orchestra, con una quarantina di prigioniere che grazie a questo fatto in buona misura si salvarono. A differenza di quanto avvenne per Alma.
Orietta Caianiello, che insegna al conservatorio di Bari, da anni è impegnata nella ricerca per il recupero di queste memorie (qui un concerto sugli stessi temi del 2021).
Chi voglia approfondire può leggere, tra gli altri, questi libri: “Un canto salverà il mondo”, di Francesco Lotoro (Feltrinelli, 2022), “L’orchestra di Auschwitz”, di Dario Oliveri (Curci, 2023), “Faccette nere”, di Felice Liperi (Manifestolibri, 2022).