Ci sono bambini che di notte rotolano in un letto di tremori inquietanti; eppure, sognano di disobbedire; costruiscono marchingegni per evitare il castigo; non hanno alcuna intenzione di arginare i capricci della fantasia. A loro andrebbe mostrato il Pinocchio (arrivato nelle sale e su Netflix il 9 dicembre) di Guillermo del Toro.
Sì, lo sappiamo: la società consiglia caldamente storie senza antagonismi, senza conflitti, dal finale elegiaco garantito, ma anche Collodi, all’inizio, non voleva fare delle Avventure di Pinocchio. Storia di un burattino una narrazione che scivolasse come l’olio.
In effetti, la storia del burattino si concludeva così: “Oh babbo mio! Se tu fossi qui! E non ebbe fiato per dire altro” impiccato dal Gatto e la Volpe. I lettori protestarono e Collodi accettò di salvarlo, mutandolo in un ragazzino perbene, studioso e obbediente. Quasi avesse sperimentato, il Pinocchio di allora, il metodo dell’“umiliazione e dei lavori socialmente utili” del ministro Valditara di oggi.
Torniamo al cartone animato. Qui lo spettatore si lascia andare al prodigio e nei prodigi, lo sappiamo, vengono esauditi desideri ingenui che crediamo irrealizzabili. Pentole della cuccagna, tralci di salsicce, casette di marzapane, unguenti miracolosi, filtri invincibili. Scenari sorprendenti ma suggeriscono che l’organizzazione razionale del mondo possa spezzarsi a ogni immagine.
A proposito di immagini, Pinocchio è realizzato con una speciale tecnica d’animazione, la stop-motion. Invece del disegno eseguito a mano, questa tecnica usa pupazzi, oggetti inanimati, progressivamente spostati e fotografati a ogni cambio di posizione. La proiezione in sequenza da l’illusione del movimento come accade nel cinema per gli esseri umani. In un secondo di animazione vengono scattate 24 fotografie e in ogni foto il pupazzo, l’oggetto inquadrato si modifica di poco. Un “poco” convertito in movimento.
Il regista, premio Oscar e Leone d’oro alla 74 esima Biennale di Venezia, reinventa la trama e la stravolge a partire dal tempo in cui si svolge. Siamo durante la Seconda Guerra Mondiale; domina la faccia del Duce. I balilla insegnano a uccidere; il saluto fascista somiglia a quello delle marionette tirate da fili invisibili. La Fata turchina si abbiglia da chimera azzurra (doppiata da Tilda Swinton nella versione originale). Sta nel mondo degli Inferi dal quale Pinocchio risale più e più volte perché morte e vita sono inscindibili.
Quanto al burattino, oscilla tra voglie improvvise e slanci di generosità; si arrabatta per sfuggire ai tremendissimi pericoli nei quali si è appena buttato. Mente sapendo di mentire così da allungarsi il naso fino a usarlo come passerella fronzuta per sfuggire alla balena.
“Il mio Pinocchio infelice è un mostro. Come me” ammette del Toro. I mostri vogliono scuotere l’ordine del mondo, le sue leggi rigorose e del Toro (ricordate La forma dell’acqua e prima ancora Il labirinto del fauno?) ama i mostri; vuole che li addomestichiamo. Così, sostituisce l’insolito al naturale e le invenzioni deliranti assumono un carattere convincente.
Il pezzo di legno non è duttile ma ribelle. Danza eseguendo i passi della trasgressione, sospinto dal vento dell’avventura. Geppetto ha un fortissimo desiderio di paternità; crea il figlio-burattino in un momento di rabbia per poi abbandonarlo incompleto, deforme. Interviene il Folletto del bosco: un tocco e Pinocchio (Gregory Mann) si anima, seppure sbilenco (ah “il legno storto dell’umanità”!) e malformato.
D’altronde, il film è popolato di malformati. Sebastian, il Grillo parlante (Ewan McGregor) con le chele agitate al vento e gli occhi spalancati del gufo; il burattinaio untuoso e patibolare, ora ribattezzato il Conte Volpe (Christoph Waltz). E il personaggio scimmia chiamato Spazzatura (Cate Blanchett), assistente del Conte Volpe, un essere incattivito, quindi pentito, in cerca anche lui della libertà. I freaks veri sono i cattivi che impongono la forza e seminano la violenza.
Eppure, la disobbedienza di Pinocchio riesce a bucare il muro della violenza, si rivela una ribellione ai soprusi, salva l’anima dalle ingiustizie, schernisce il potere che non è eterno.
Può piacere ai bambini questa favola paurosa, decisamente dark? Secondo me sì, perché la paura contiene in sé la sfida, la scommessa di riuscire a renderla un gioco. E vincerla.