Nel femminismo che mi ha cresciuta, la maternità occupava un posto poco evidente. O meglio: quando veniva implicata, era per disconnettere sessualità da maternità. In effetti, le più vecchie tra noi ricorderanno il “più devianza, meno gravidanza” delle manifestazioni.
Certo, l’essere madre poneva interrogativi ma relegati in un angolo a fronte del problema e dell’angoscia di trovare una via d’uscita nel caso, anzi, nei differenti casi in cui io, altre, non volessimo diventare madri.
In quel tempo infatti il “no” doveva pagare lo scotto di condizioni-capestro tra sofferenze, imbarazzi e silenzi intorno al modo in cui si abortiva. Non ne sono sicura ma probabilmente, anche per questo motivo la parola pubblica sulla maternità si trovò risucchiata dai discorsi intorno alle politiche di controllo e alla legge che doveva autorizzare l’aborto.
Nel frattempo, si presentavano sulla scena donne con aspirazioni diverse da quella di mettere al mondo una creatura: il femminismo non voleva più saperne della santificazione della maternità o del modello “una donna che non è madre non è una donna”.
Il lavoro politico si concentrò sull’autonomia femminile a disporre del proprio corpo e scegliere per sé. Tuttavia, simili convinzioni, se appartengono a molte di noi, non hanno mai prodotto l’unanimità.
Se negli Stati Uniti, i militanti antiabortisti iniziano a difendere già nel 1980 (la sentenza Rose vs Wade è del 1973) le loro idee con il porta-a-porta e i gruppi di pressione, adesso, la nomina di un terzo dei 9 giudici della Corte Suprema da parte di Trump ha autorizzato la Corte a realizzare il progetto di soppressione del diritto all’aborto: ogni Stato ha ormai la possibilità di rendere l’interruzione volontaria della gravidanza illegale, a seconda della propria legislazione.
In Europa, le destre conservatrici al governo in Polonia, in Ungheria, ora in Italia, si pongono minacciosamente contro l’autonomia femminile supponendo di poter imporre nuovamente la maternità come destino biologico. Intanto, arretrano i ragionamenti sull’irresponsabilità maschile.
La legge 194 fu un compromesso tra culture distanti; con il tempo le sue crepe si sono allargate (dai tanti medici obiettori di coscienza alla difficoltà a reperire la pillola RU-486).
Distanti le culture e tante, diverse le motivazioni. Non si possono racchiudere in quelle tirate in ballo da Giorgia Meloni che ha parlato di “donne costrette ad abortire, per esempio perché non hanno soldi per crescere quel bambino, o perché si sentono sole”.
Il corpo femminile è un campo di battaglia nel quale confliggono volontà di controllo e domanda di autonomia, un groppo di desideri e paure, di slanci e pentimenti.
In questa altalena, interrompere la relazione appena iniziata significa forse un debole desiderio di maternità (lo racconta in “Ninjababy” la regista norvegese Flikke) che invece per la società, ogni donna dovrebbe coltivare.
Allora, più che iscriversi nell’orizzonte simbolico della libertà femminile, l’aborto mi sembra evocare un’affermazione della soggettività e contemporaneamente un rimedio, via d’uscita, compromesso di colei che non nutre il progetto di generare un’altra vita.