Pubblicato sul manifesto il 23 agosto 2022 –
Ho visitato la mostra al museo di arte moderna di Bologna dedicata a Sean Scully. I suoi quadri e le sue sculture, i commenti scritti su fogli che sono insieme parole e immagini, le interviste e un intenso saggio sulla pittura di Giorgio Morandi (una intima rivolta personale “antieroica” contro un modernismo politicamente compromesso) mi hanno fatto pensare che all’orrore del linguaggio violento e della violenza personale, sociale e bellica che ci circonda si possa cercare rimedio (anche) nella creazione artistica.
Certo, un’idea antica. Forse infondata, impossibile?
Claudio Vedovati ha scritto su Facebook che le minacce e gli urlacci di Albino Ruberti vengono dal “potere che uccide la politica, che è diventata la biografia di molti, se non della nazione. E quando la politica si riduce a potere ecco che esce fuori la violenza”. Non, dunque, una sfuriata – quali ne fossero le origini – da derubricare a nota caratteriale, archiviata con le dimissioni.
Il clamore di quel diverbio ieri è stato surclassato in violenza e volgarità da Giorgia Meloni, che ha messo in rete il video di uno stupro: quale contrasto con il sostanziale silenzio della politica sulla tragedia quotidiana di una guerra che cresce su se stessa fino ai livelli massimi di rischio globale. Tutto si riduce al grado di fedeltà alla Nato, al mandare o meno armi a Zelensky.
Edgar Morin, intervistato da Nuccio Ordine sulla Lettura: “Stiamo vivendo, soprattutto, una crisi più insidiosa, invisibile e radicale: la crisi del pensiero”. Vero. Non mi convince del tutto, però, la sua proposta, che – forzando ai minimi termini – guarda a un umanesimo di matrice illuminista, socialista, ecologico. Per non dire che alla parola pensiero aggiungerei un aggettivo: maschile. (Anche il pensiero femminile e femminista vive una crisi? Certo si interroga, consapevole della propria differenza).
Cercare ancora. Cercare altrove.
Ascoltiamo qualche parola di Sean Scully. La mostra – al MAMbo fino al 9 ottobre – è intitolata A wound in a dance with love, “Una ferita in una danza con l’amore”. Definizione dell’arte di Scully, che la spiega così: “A me sembra abbastanza evidente che l’arte viene per lo più dall’oscurità, o dalla perdita, dalla difficoltà, dalla stranezza, dal disagio, ed è un modo per raggiungere una sorta di redenzione, o di manifestare qualcosa che, in qualche modo, ripara il danno. Molte persone che sono grandi nell’arte sono, io credo, anche profondamente ferite”.
Scully, che ha avuto una infanzia povera e randagia, e ha sofferto la perdita di un figlio, da un certo punto in poi ha scelto di creare anche scritture per evitare che “l’astrazione si allontani troppo dal pubblico. Diventa inaccessibile, e io non voglio fare un’arte inutilizzabile dalla gente. Voglio farla per la gente, non per un ristretta cerchia…”.
“Mi incuriosisce sempre il modo in cui vivono le persone, per cui voglio che la mia opera, la mia astrazione, siano molto legate alla vita stessa – alla vita dei lavoratori, della città, della campagna, ma sempre comunque legata alla strada, al modo in cui la gente vive davvero”. “Penso che sperimentazione e libertà abbiano un’importanza enorme…faccio un quadro figurativo e poi uno astratto…”. “…È questa capacità di mantenere una posizione intermedia nelle discussioni, di sospendere il giudizio, di lasciare spazio alla riflessione, alla tolleranza, alla flessibilità di pensiero, e questo atteggiamento, a mio modo di vedere, è l’unica cosa che salverà il mondo. La verità è che il mondo va salvato dalla nostra ignorante, arrogante sicurezza”. (Dall’intervista firmata da Lorenzo Balbi, nel catalogo della mostra edito dal museo).