È una vittoria del femminismo che il 25 settembre si preveda la vittoria di una donna come premier?
Il femminismo ha lavorato per modificare un ordine simbolico che non comprendeva le donne: era necessario confliggere con il patriarcato; renderlo inefficace anche attraverso la cura che incivilisce le relazioni. E poi riconoscere la differenza; affermare l’inviolabilità del corpo femminile.
Per stare alla materialità delle cose, si voterà con questa legge elettorale, il “maleficent” Rosatellum, dal suo relatore Ettore Rosato che pure dorme sonni sereni come, d’altronde, i capi dei partiti che indicano i candidati per collegi uninominali e listini bloccati senza interpellare gli elettori.
Nessun partito (o quasi) ha provato a cambiare il Rosatellum. Quanto ai sessi, la legge prevede l’alternanza uomo/donna nei listini bloccati e un numero di candidati uninominali e capilista nei listini non inferiore al 40 per cento per ciascun sesso. Pesa il dimezzamento dei parlamentari votato a suo tempo quasi all’unanimità, il che rende difficile ottenere una posizione di effettiva eleggibilità, scelta in ogni caso dai vertici dei partiti.
Comunque, per la prima volta si parla di una donna premier in questo Paese dove “lo spazio delle donne” (titolo del bel libro di Daniela Brogi) è ancora troppo ridotto, e praticamente inesistente nei luoghi del potere. A questo spazio guarda il femminismo e prima l’emancipazione: dal chiuso della casa all’autonomia, alla scelta, alla libertà. Giorgia Meloni si definisce “madre e cristiana”; non vuole “essere rinchiusa nel recinto delle cose da femmina”; è contraria all’ “ideologia gender”, vicina al “popolo nativo”, alla testa di Fratelli d’Italia e della coalizione di centrodestra.
“Io sono Giorgia” può esibire un percorso autonomo e un’identificazione profonda con l’humus culturale e politico della destra tra sovranismo e nazionalismo. Sguardo rivolto a “Dio, patria, famiglia” e non alle trasformazioni necessarie nel modo di lavorare, di una vita comune. L’ordine patriarcale è vivo e nessuno deve metterlo in questione.
Giorgia Meloni ha condiviso il video di uno stupro avvenuto a Piacenza. La donna che ha subito la violenza si è detta disperata perchè la diffusione su social e media di quel video l’ha fatta riconoscere. Ora, mentre il femminismo ha portato alla luce la violenza esercitata sul corpo delle donne, la discriminazione verso chi non si identifica in una collocazione binaria, la leader di Fratelli d’Italia, preceduta da testate giornalistiche e social ha usato il corpo femminile (per quanto – si giustifica – con il volto oscurato) come un oggetto, una cosa, piegandolo a strumento di propaganda elettorale per riaffermare la necessità dell’ordine pubblico.
Mostrare la sofferenza inferta a una donna significa ignorare l’esistenza del pudore, del rispetto: condividere il video significa mancare di cura politica. Prima ancora della cura della politica.
Dunque, ha importanza la presenza delle donne ma poi contano le idee, il linguaggio che distinguono le donne tra loro e una dall’altra.
L’eventualità politica di una presidente del Consiglio sta provocando molte discussioni. I giornali pubblicano articoli di intellettuali, studiose; compaiono testi collettivi di gruppi di donne.
Il “Decalogo ecofemminista per un buon governo” rivolgendosi “alle donne e agli uomini che disertano il patriarcato” nomina “quello di cui le donne sono esperte: relazioni eque tra le persone nel rispetto delle differenze, una società della cura, l’abbraccio alla Madre Terra e alle specie che la abitano”, con un accenno al tema controverso della prostituzione e facendo incontrare il punto di vista femminista con quello ambientalista.
“Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti” è una petizione lanciata da Marina Terragni e altre, singole e associazioni, su Change.org, elaborata “nel segno di Carla Lonzi a quarant’anni dalla sua scomparsa”.
Ora, se Lonzi guardava alla sessualità, all’autocoscienza, alla differenza femminile, la petizione mette al centro dell’identità la maternità come principio dell’umano e fondamento della civiltà. Se Lonzi operava un taglio con “la lotta di classe come teoria rivoluzionaria”, la petizione invita le donne a “separarsi dal progressismo liberal”. Insieme a elementi importanti, condivisibili, vengono nominati temi controversi nel movimento delle donne (la gestazione per altri, la teoria gender).
La giornalista Natalia Aspesi (su “Repubblica” del 17 agosto), a partire dal fatto che la petizione si rivolge a tutte le donne dei partiti, forza la questione e suggerisce, anche per via del titolo fuorviante, una vicinanza alle idee di Giorgia Meloni. Mi sembra piuttosto che quei temi vengano strumentalizzati dalle destre per esibire assonanze, contiguità: “Vedete, anche il femminismo la pensa come noi”.
La discussione non si è esaurita. In effetti, l’occhio maschile (nonché femminile) deve abituarsi alla presenza delle donne ai vertici del potere politico. Ma questo esercizio non significa confondere il sesso con le idee di chi pensa, parla, si appresta a governare. D’altra parte le idee camminano con i corpi, sessuati, delle persone. Il femminismo è un movimento così forte, così variegato che non solo porta trasformazioni ma provoca dei risultati diversi da quelli perseguiti. Si chiama eterogenesi dei fini.