Dopo quella di Fulvia Bandoli, pubblichiamo una sintesi dell’autore della relazione di Giulio Marcon con cui si è aperto l’incontro sulla “Cura maltrattata” organizzato dal Gruppo delle femministe del mercoledì alla Casa internazionale delle donne di Roma il 23 marzo scorso.
Due anni di pandemia hanno messo in evidenza la centralità della cura, di politiche pubbliche capaci di promuovere benessere sociale e collettivo e che facciano del welfare l’architrave di servizi e interventi. Non puramente riabilitativi, difensivi, assistenziali, ma di allargamento della sfera dei diritti e della realizzazione delle aspirazioni individuali di ciascuno. La pandemia ha messo in evidenza il bisogno di protezione e di sicurezza (sociale), sollevando nel contempo il tema di un ripensamento delle politiche sociali inclusive e capaci di promozione della persona.
Naturalmente di fronte ad un welfare italiano molto eterogeneo e per certi versi frammentato è necessario ricordare in ogni occasione i ritardi di un sistema che premia più il nord che il sud, più gli uomini che le donne, più gli stabilizzati che i precari, più gli anziani che i giovani. E il livello di spesa è ancora largamente insufficiente, inferiore alla media dei paesi europei, soprattutto per ambiti come la sanità e l’istruzione.
Si approvano mozioni parlamentari per portare al 2% la spesa per le armi, ma mai questo succede per portare all’8% (dal 7,3) la spesa per la sanità o per portare al 5% (dal 3,9%) la spesa per l’istruzione. A questo va aggiunto un cambiamento negli scorsi decenni anche nella cultura e nel lessico del welfare. Il mercato e la cultura d’impresa hanno colonizzato non solo le politiche, ma anche l’immaginario e le narrazioni del quotidiano. Anche nei servizi pubblici si ricorre alla customer satisfaction e si parla di bisogni, non di diritti. Quelle che una volta erano le Unità sanitarie locali da tempo sono diventate le Aziende sanitarie locali. I servizi di welfare sono diventati mercati sociali. E nelle scuole il virus imprenditoriale ha dato vita all’esperienza dell’”alternanza scuola-lavoro”.
L’innalzamento della spesa e il cambiamento di paradigma con la demercificazione di alcuni ambiti legati al benessere quotidiano e indispensabile delle persone (come fu 70 anni fa il processo di affermazione del welfare) rimangono dei passaggi fondamentali. Ma come negli anni ’70 -grazie anche alle migliori pratiche sociali di base- si avviò un processo di deistituzionalizzazione dell’intervento sociale (si chiusero manicomi e orfanotrofi) e si allargò la sfera dell’intervento sociale a nuovi soggetti e sofferenze sociali, così oggi il paradigma della cura può contribuire a innervare pratiche e dinamiche nuove fondate sulla comunità, il territorio, la relazione. I beni relazionali sono determinanti quanto la concretezza degli interventi per far fronte alle sofferenze fisiche e materiali.
La guerra in Ucraina ha fatto rapidamente dimenticare l’urgenza di mettere al centro -insieme alla transizione ecologica- le politiche della cura e del welfare come la base di un nuovo modello di sviluppo. La pandemia ha fatto riscoprire la necessità di rafforzare la medicina territoriale e di avere degli ospedali di comunità (dopo avere chiuso negli ultimi decenni tutti i piccoli ospedali), ma ora tutto questo sembra avvolto nella nebbia. Come dubbia appare la riscoperta della dimensione pubblica della architettura dei nostri servizi collettivi.
Il recente decreto concorrenza obbliga gli enti locali ad affidare tutti i servizi pubblici al mercato, salvo straordinarie eccezioni. Nel PNRR, le parole concorrenza e competizione compaiono centinaia di volte, mentre le parole cura e relazione si contano sulle dita di una mano.