“Nel corso della composizione è stato ristrutturato. Il primo movimento è diventato l’ultimo, l’ultimo ora è il primo. In tutto ci sono quattro movimenti. È venuto maluccio. Ma è difficile comporre buona musica. Bisogna saperlo fare…”. Così scriveva nel luglio del 1938 Dmitrij Shostakovich all’amico e critico musicale Sollertinskij a proposito del suo primo quartetto per archi. Un sereno e piacevole canto in do maggiore.
Ne avrebbe scritto 15, l’ultimo a poco più di un anno dalla morte, avvenuta il 9 agosto del 1975. Avrebbe voluto arrivare a 24, toccando tutte le tonalità della scala cromatica.
Più di altre composizioni questa musica può far comprendere una biografia e un’arte complessa (e per me bellissima), segnata drammaticamente dallo scarto tra buoni sentimenti rivoluzionari, e la loro negazione nell’Urss di Stalin (e anche negli anni successivi), con compromessi difficili e contraddittori, segnati dal tentativo di sopravvivere, umanamente e artisticamente.
Dopodomani, giovedì 20, i primi 3 quartetti possono essere ascoltati a Roma al teatro Argentina, dal quartetto Prometeo nel programma della Filarmonica Romana. Nei prossimi mesi saranno eseguiti tutti gli altri. Ma intanto il 2 febbraio, all’Auditorium, sempre a Roma, il quartetto Adorno suonerà per Santa Cecilia il 14mo quartetto, tra le bagatelle di Webern, e l’ultimo Beethoven.
Lunedì scorso ho imparato molte cose che non sapevo sui quartetti di Shostakovich ascoltando una conferenza on line del musicologo Jacopo Pellegrini, amico di amiche e amici. Molte di queste composizioni fanno parte della musica “per il cassetto” che l’autore componeva sapendo che non sarebbe stata “approvata” dai suoi colleghi custodi dell’ortodossia zdanoviana, e quindi non eseguita. Vi si trovano certe manifestazioni segrete di opposizione al regime: per esempio quando nel quarto quartetto scrive un tempo ispirato alla musica ebraica klezmer, come risposta alle discriminazioni e incarcerazioni che anche nell’Urss subivano gli ebrei. Siamo nel 1948 e come le coeve “Romanze dalla poesia popolare ebraica”, per canto e pianoforte, si dovrà aspettare la morte di Stalin nel ’53 per ascoltarle in pubblico nelle città sovietiche.
Pellegrini ha ricordato che anche negli anni ’70 non mancarono polemiche sulla disponibilità del musicista ad accettare le imposizioni burocratiche: per esempio firmò un documento favorevole alla condanna del dissidente fisico Sacharov. Cosa che sembra poi lo tormentasse. Era già malato e in ospedale, pressato da questo tipo di richieste, diceva che firmava certi testi tenendoli alla rovescio per non leggerli, e liberarsene.
Non è mancato, a conferenza conclusa, uno scambio polemico. Stalin come Hitler? No, persino lo storico tedesco Nolte – è stato ricordato al relatore – vedeva una differenza tra la violenza razzista e lo sterminio degli ebrei e le abberrazioni tragiche a cui arrivò un’idea sbagliata della lotta di classe.
C’è da dire che Jacopo – giovane signore interessante, allievo devoto al maestro Mario Bortolotto – ha il gusto della provocazione. In una precedente occasione, avendo saputo della mia predilezione per Shostakovich, mi ha subito detto che come compositore non vale granchè! Per questo sono andato, virtulmente, a ascoltarlo (devo ancora pagare, altrettanto virtualmente, il biglietto ma giuro che lo farò). Jacopo con Loredana Rondelli si è inventato queste conferenze musicali itineranti in case di amici, ma anche fruibili in rete. Quando, Covid permettendo, ci si può riunire, si fa perdonare le provocazioni servendo alla fine ottimi cocktail. Se vi piace la musica prenotatevi per le prossime: [email protected]