È uscito in libreria un nuovo volume scritto da Francesco Pecoraro, edito da Ponte alle Grazie. Il libro è una raccolta di racconti di cui la prima metà già pubblicati in Dove credi di andare, della stessa casa editrice nel 2007. Chi ha già letto i suoi due libri più importanti – La vita in tempo di pace del (Premio Mondello e Premio Viareggio 2014) e Lo stradone (Premio Campiello – Selezione Giuria dei Letterati 2019) – può ritrovare in questi racconti vari elementi ricorrenti nell’immaginario e nella poetica dell’autore, che affiorano qua e là.
Nel capitolo Cormorani, ad esempio, troviamo, Clara (la prima moglie, già conosciuta in La vita in tempo di pace) e Anzio (la Città di Mare), l’Isola, il mare, l’Estate anch’essi soggetti di capitoli dello stesso libro dove aveva affermato: «l’Estate come utopia perché quelle che per gli altri sono solo vacanze, per me diventano segmenti di un’esistenza alternativa, l’unica vera e giusta, l’unica che valga la pena di vivere».
Nel primo racconto da cui prende nome il titolo del libro, Camere e stanze, il protagonista, Sandro detto Silver, è un docente universitario che sta con una ragazza giovane che gli organizza una grande festa per i suoi 50 anni. Le tante persone che arrivano a casa sua, una massa di giovani completamente sconosciuti che sembrano aumentare sempre di più, si accalcano all’ingresso e perfino sulle scale, e si mettono a “profanare” il suo appartamento, a distruggere il suo mondo, a prendere in giro i suoi ricordi e ridicolizzare gli oggetti del suo passato. Il compleanno si trasforma in un incubo.
La tematica dell’intellettuale di mezza età che sta con la giovane non particolarmente colta è tipica di un certo tipo di narrativa americana, a cominciare da Philip Roth con la giovane fidanzata di Portnoy che non aveva neanche votato per Kennedy!
In Non so perché Pecoraro mette in luce la figura di Padre – come era già stata ben connotata in La vita in tempo di pace – dove con “Padre” intende tutto ciò per il quale si fanno cose o contro o in adesione. Padre rappresenta l’autorità, la conservazione, ma anche la storia e la memoria. Padre è anche il simbolo del lavoro, della razionalità, del tecnicismo; tutto ciò che è “dover essere” è compendiato nella figura di Padre, mentre Madre è comprensiva e accogliente: «…aveva un tono benevolo, gli passava la mano nei capelli, gli carezzava il lobo dell’orecchio, cosa che a lui dava il Piacere Sommo della Protezione Materna e lo faceva sentire al caldo dentro Casa. Dentro Casa c’è Madre, con la sua potenza contro le malattie e il Male, la morte, la scuola, la città, il mondo» (North American P-51 Mustang, p. 324)
Imperdibile è il racconto Mi suicido per via dei miliardi di anni. Una nenia ironica e caustica di una decina di pagine dove l’autore elenca, come motivazioni del gesto, malesseri oggettivi e soggettivi: «Mi suicido perché l’unico linguaggio veramente puro, quello matematico, non si trova alla mia portata mentale» (p. 311), oppure: «Mi suicido per la mia incapacità ormai comprovata, ma mai accettata, di stabilire un patto termico con l’ambiente che mi circonda, motivo per il quale non sono mai in equilibrio e quindi ho freddo oppure ho caldo e non sto mai bene» (p. 313) o parlando di donne: «Mi suicido perché ogni volta che vedo una donna che mi piace – succede continuamente – è come se la vedessi da dietro un finestrino partire su un treno che va in direzione opposta al mio» (p. 314).
La scrittura per Francesco Pecoraro sembra avere un ruolo liberatorio: scrivendo ci si affranca da tutte le rabbie e dalle frustrazioni, si tirano fuori le nostalgie, si parla del proprio mal di vivere.
In North American P-51 Mustang sono molto belli i ricordi degli imbarazzi adolescenziali nei confronti dell’altro sesso, così come la contraddizione fra il desiderio di crescere e di diventare adulto in fretta commisto alla paura dell’abbandono: una visione dell’adultità come perdita di una situazione protetta.
Un elemento caratteristico della scrittura di Pecoraro è la descrizione minuziosa dei particolari. I vestiti sono sempre descritti non solo nei colori ma anche nei tessuti mentre gli oggetti sono definiti dalle marche. Ad esempio il regalo del “nonno di Stefano” non è un semplice orologio ma è “un Eberhard”. Talvolta sono delle vere e proprie connotazioni di classe, come ad esempio le accurate descrizioni dei vestiti di Bertelli, Genovese e Renzulli, i compagni di Convitto alla scuola di preti in Nosferratu: «Roba fatta su misura, doppi petti grigi o marroncini, con giacca lunga molto avvitata, tasche e taschine tagliate in obliquo con la patta, quattro bottoni e revers strettissimi. Camicia bicolore: il collo e i polsini azzurri, o a righe, il resto bianco. Cravatta reggimentale annodata stretta al colletto alto a due bottoni. Pantaloni stiratissimi col risvolto e riga perfetta. Gemelli d’oro. Stivaletti in cuoio rosso con fibbia dorata. Fiumi di colonia inglesa, Dunhill» (p. 351).
Il dettaglio, considerato pluridimensionale, diventa, in qualche modo, disarmonico all’interezza monodimensionale del linguaggio. “Dio è nel dettaglio” è una celebre frase di Mies Van Der Rohe che, figlio di uno scalpellino, amava curare tutti i particolari architettonici nei suoi progetti. “Il buon dio alberga nel dettaglio” è anche il motto preferito di Aby Warburg, lo studioso tedesco che con le sue ricerche sul simbolismo, sulla mitografia e sull’astrologia, ha dato impulso allo studio sistematico di tanti filoni della storia dell’arte come l’iconologia, agli inizi del Novecento. In effetti, la conoscenza attraverso il frammento (piccola parte o quantità trascurabile) oppure attraverso il particolare (elemento minuto che fa parte di un tutto) porta inevitabilmente a considerare il dettaglio quale importante elemento di agnizione. Non a caso uno dei metodi più diffusi in pittura per l’attribuzione di un quadro a un autore, è quello di analizzare attentamente il dettaglio trascurato. Si guardano, dunque, le fattezze di un’unghia della mano meno in evidenza, oppure i fili di erba in un panorama di sfondo, oppure le pieghe di una veste indossata da un personaggio secondario non in primo piano. Questo perché nel disegno del dettaglio pittorico spariscono la dimensione epica e la composizione geometrica e di conseguenza si affievoliscono la tensione aulica e l’impianto razionale.
Inoltre, nella pratica psicoanalitica l’importanza del lapsus, del cosiddetto atto mancato, o del non-detto (tutti dettagli) sono essenziali per l’interpretazione dell’inconscio. Ad esempio nella narrazione di un sogno il contenuto manifesto può essere decodificato attraverso la lettura delle simbologie palesi, mentre è solo attraverso il dettaglio che sfugge all’analizzando – frammento trascurabile – che si può arrivare al contenuto inconscio.
Tornando al libro Camere e stanze di Pecoraro, a mio avviso, si riscontrano nei racconti le tematiche di molti scrittori americani che hanno iniziato ad avere successo negli anni ’60: la descrizione dell’anti-eroe, dell’uomo fragile e nevrotico, di un “perdente” secondo una logica comune dominante, di un uomo che mostra le sue debolezze, fatto che di solito non è socialmente accettato.
Francesco Pecoraro è un cantore della Città di Dio – formula già usata da Pasolini per indicare Roma – e gestisce con saggezza l’ironia e l’amarezza in modo lucido, tagliente e spiritoso, resistendo all’identificazione e alla facile empatia. Al contrario sembra talvolta voler intenzionalmente infastidire il lettore attraverso alcune descrizioni truculente e dettagli raccapriccianti, come fosse un adolescente che usa un linguaggio scurrile di fronte agli amici dei genitori. I protagonisti di questi racconti sono tutti uomini di mezza età intellettuali o professionisti – quando non sono adolescenti – che devono fare i conti con le proprie disillusioni riflettendo sulle ambizioni giovanili e sui propri sogni.
Il libro trova la sua forza nella capacità di osservare, in modo nitido e ossessivo, e decostruire il presente diventando testimone della storia sociale dell’ultimo secolo e interprete di una “generazione fortunata”.
Francesco Pecoraro
CAMERE E STANZE
Ponte alle grazie, Milano ottobre 2021, pp. 480