Pubblicato sul manifesto il 12 ottobre 2021 –
Mentre sabato scorso un manipolo di fascisti vetero e neo entrava nella sede nazionale della Cgil, distruggendo oggetti e sfregiando quadri di autore donati al sindacato (un esempio aggiornato di ardimento virile – verrebbe da dire – devastare una sede vuota…), ero a discutere alla Libreria delle donne di Milano con Letizia Paolozzi del libro scritto insieme proprio sui “virus della violenza” che questo strano tempo della pandemia sembra evidenziare, e sulla possibile “cura” (“Il silenzio delle campane”, Harpo 2021).
Ringrazio Giordana Masotto per la sensibilità con cui ha presentato il libro (tra l’altro facendo ascoltare a sorpresa le battute iniziali dell’Improvviso di Schubert citato in apertura del testo…). La discussione si è subito accesa sul controverso termine “cura”. Se è dilagato il gergo militaresco per descrivere la “guerra” al virus e “mobilitare” le energie e il consenso sociale per sconfiggerlo, specularmente anche la “cura” è diventata “la parola dell’ordine costituito”, ha osservato Lia Cigarini. Qualcosa di funzionale al declino di una politica che “appare morta”, perché incapace di esercitare il conflitto necessario, pur nel momento in cui le disuguaglianze sociali si sono aggravate e sono state “illuminate” in questi due anni di pandemia, ma mentre anche i movimenti capaci di nuove solidarietà hanno conosciuto forti protagonismi.
Il conflitto che sarebbe necessario certo non è quello visto nelle piazze romane e nella sede della Cgil. Cigarini ha ricordato che il femminismo della differenza ha elaborato l’idea e la pratica del “conflitto relazionale”, dove anche il confronto più duro si basa sulla trasformazione di sè e sul rapporto con l’altro. Pratica certo difficile se qualcuna (Liliana Rampello) ha ricordato che anche nel femminismo ci sono stati e restano “conflitti in cui l’altro/a non c’era…”.
Un tema affrontato di petto la mattina del giorno dopo, quando l’incontro della rivista on line Via Dogana3, sempre nella sede della Libreria delle donne, riguardava appunto la politica della differenza sessuale ( che “non è un contenuto”) e l’”ostacolo del gender”.
Discorso arduo (basta pensare allo scontro aperto sul decreto Zan, o alle polemiche molto accese su argomenti come la gestazione per altri o la prostituzione). Ma il taglio dato in apertura da Giorgia Baschirotto e Doranna Lupi è stato quello della possibile riapertura di uno scambio tra differenza, gender e queer. Una giovane studiosa, che lavora nel campo della moda, e una protaganista del lungo dibattito nelle comunità cristiane di base antipatriarcale e contro l’omofobia nella Chiesa sono giunte a indicazioni simili, interconnesse. È davvero possibile ibridare il cyber femminismo di Sadie Plant ( Luiss ha da poco tradotto e pubblicato il suo “Zero, uno”) con “Speculum” di Luce Irigaray, come vorrebbe Baschirotto? La discussione sulle diverse “identità di genere” e sulla relazione tra corpi e sessualità saprà superare lo scoglio di una legge, quale ne sia il destino finale?
Questo conflitto bloccante tra soggetti e movimenti che potrebbero essere accomunati dalla ricerca del senso libero della propria differenza (in un mondo tra l’altro attraversato da impulsi biecamente reazionari e maschilisti) è funzionale – è stato osservato – all’eterno ritorno dell’indifferenziato patriarcale.
Gli interrogativi che appassionano donne e uomini giovanissimi sulle metamorfosi possibili del sesso sono un sintomo da comprendere (Ida Domnijanni, Laura Colombo). Vi si può leggere l’effetto di un tecnocapitalismo dominante che illude sul poter essere tutto. Ma anche l’ansia radicale di una vita realmente libera e giusta.