Subito dopo l’arrivo a Kabul dei talebani, abbiamo visto un video con la corsa di soli maschi che inseguivano gli aerei militari per mettersi in salvo; qualcuno è precipitato mentre si aggrappava ai carrelli.
La domanda: dove sono le donne? sottintendeva la minaccia della loro scomparsa. Magari le donne si erano persuase che quella corsa, quella competizione presentava troppi rischi, era per loro impossibile.
Nei giorni seguenti, le donne sono comparse. Hanno sollevato insieme al padre il loro bambino oltre il muro di cinta dell’aeroporto. È stato il console italiano, Tommaso Claudi, elmetto a tracolla, giubbotto antiproiettile, a riceverlo; oppure tra le sue braccia, il marine americano, il soldato inglese.
Dietro quel muro la speranza.
D’altronde, per soffocare la speranza tra Messico e Stati Uniti, tra Turchia e Iran, tra Grecia (che ha appena costruito una barriera di 40 km) e Turchia, ovunque si costruiscono muri.
Di fronte all’aeroporto si affollano gli afghani. Ho letto che molte donne rinunciano all’attesa: caotica, troppo pericolosa. Sui media guardo le immagini femminili nascoste in un mare di azzurro. E’ il burqa che torna. Si comprava a pochi dollari, ora pare che il costo sia triplicato.
Ha detto un portavoce dei talebani che le afghane dovranno indossare l’hijab ma non il burqa. Ha pure detto che potranno accedere all’istruzione, compresa l’università (ma su quali libri di testo e programmi studieranno?) però niente più classi miste. Nelle nostre democrazie ogni tanto divampa la discussione se non sia meglio separare femminine e maschi dal momento che il rendimento è migliore laddove si rispettano necessità educative specifiche. In Afghanistan suona come una campana a morto per le ragazze.
Gli uomini che “odiano le donne” vogliono decidere per il sesso femminile. Ma si trovano di fronte una società diversa nella quale le donne protestano, si ribellano.
Nonostante corruzione, attentati, miseria, pandemia, differenze abissali tra città e campagna “un terzo delle afghane, nei grandi centri abitati, ha saputo guadagnare spazi di libertà”. (Bianca Pomeranzi su questo sito). Qualcosa resterà.
I talebani (si tratta di fondamentalisti o di nazionalisti jihadisti? Questo non lo sappiamo) sono ricomparsi, Kalashnikov a tracolla, ma in una foto (a meno che non sia un fotomontaggio), giocano agli autoscontri.
Gli americani venti anni fa promisero un ordinamento statuale democratico (sostenuto manu militari). In venti anni milioni di dollari spesi per armamenti; un numero altissimo di morti tra civili e militari. Ora Biden decide (lo volevano anche Obama e poi Trump) “tutti a casa”. Decisione realizzata in maniera inesperta, caotica, inetta.
Peraltro, gli americani – Biden – che avevano scelto per il ritiro una data tragica come l’11 settembre, ce l’hanno l’inconscio?
Frau Merkel, raro esempio di assennatezza di questi tempi, ammette: “Abbiamo sbagliato tutti”.
Giacché una parte degli afghani al socialismo, a un regime liberale contrappone l’Emirato islamico. Quella parte diffida della modernizzazione. Escludere che “il popolo sia pronto a accettare il fanatismo intollerante dei giovani barbuti” (Dacia Maraini sul “Corriere della Sera” del 21 agosto) rappresenta un nobile desiderio ma sapendo che dall’altra parte incombe lo spettro della guerra civile.
Noi, io che sono contenta di vivere in una democrazia e non in un sistema tribale, in una dittatura, in una satrapia orientale, ho imparato qui, nel mio paese, che la democrazia si regge sui legami sociali, sulla riduzione delle diseguaglianze economiche oppure è un sistema che scricchiola, sempre minacciato dai venti del populismo, dal plebiscitarismo, dall’autoritarismo.
Qui, nel mio paese, io posso protestare, reagire quando si intimidisce la libertà femminile. Non sono le azioni militari bensì la lotta delle donne di questi cinquant’anni che ha reso possibile la protesta.
Ai miei occhi è ovvio che ogni donna ha una sua idea di mondo, delle parole per dirlo e io l’ascolto. Chi non attribuisce alcun valore alla vita o ne attribuisce moltissimo alla propria fede, al proprio credo, all’etnia, alla collettività non presterà alcuna attenzione a una donna che parla. In effetti, sembra che i talebani si rifiutino di rispondere alle donne per le strade di Kabul.
Dal momento che le battaglie si possono condurre senza kalashnikov e senza droni, c’è da aprire conflitti per garantire l’accoglienza di chi arriva, per il suo inserimento nella nostra società senza dimenticare quei 38 milioni che resteranno in Afghanistan. Quanto alle afghane, quelle che vogliono fuggire, vanno aiutate; quelle che vogliono lottare, vanno sostenute; quelle che mettono il burqa per paura o per affermare la propria identità, vanno rispettate; quelle che annunciano di voler entrare nel governo talebano per cambiarlo dall’interno, vanno ascoltate. Le scelte individuali sono diverse. Non ricominciamo a schiacciare sotto un unico denominatore le donne e un intero popolo: venti anni fa l’intervento partiva da questa convinzione. Non mi pare sia stato un successo.