Questo articolo di Bianca Pomeranzi è stato pubblicato il 20 agosto sulla pagina Facebook della Casa Internazionale delle donne di Roma.
Le immagini atroci dell’aeroporto di Kabul ci hanno annichilito. La rabbia e la paura di una popolazione disperata hanno preso il sopravvento sulla nostra apatia verso una guerra lontana di cui tutti, adesso, sembrano vergognarsi.
Il dolore per chi rimane, per le molte e i molti che vedranno la loro vita in pericolo o annientata, per bambine e per giovani che perderanno la possibilità di scegliere il futuro non può di nuovo annegare nell’enfasi del “salviamo le donne” dall’alto della nostra libertà. Né possiamo accettare che le afghane siano ostaggio di una guerra persa nel finto scontro tra patriarcati.
Quando, venticinque anni fa, siamo insorte per la violenza sistematica e esibita del primo governo talebano verso donne e bambine, non abbiamo creduto neanche un po’ che in nome dei loro diritti si potesse bombardare un’intera popolazione. Nessuna guerra fa bene, in particolare alle donne.
Sapevamo che era un pretesto, un sottile velo di umanità sulla spessa coltre di interessi “geopolitici” che muovevano la macchina della guerra al terrore. Così come abbiamo capito da subito, a talebani cacciati da Kabul, che i pochi milioni a disposizione della ricostruzione sociale, l’istruzione, la sanità, la giustizia e l’informazione non potevano bastare a compensare i miliardi di finanziamenti in armamenti, infrastrutture e crediti a fondo perduto che finivano nelle casse dei signori della guerra. Oppio, armi e corruzione hanno nutrito i fondamentalismi da entrambi le parti.
Nelle aree rurali dove vive più dei due terzi della popolazione, i signori locali attraverso le regole non scritte di famiglie, clan, etnie, hanno mantenuto il controllo sulla vita delle donne e sul loro lavoro, disponendo della possibilità di decidere sugli aiuti e sull’accesso a educazione e salute. Per quelle donne per lo più giovani e giovanissime, la vita è cambiata poco e troppo lentamente.
Eppure, un terzo delle afghane, almeno nei grandi centri abitati, ha saputo guadagnare spazi di libertà, accesso all’istruzione, al lavoro e, con difficoltà, alla giustizia.
Ce lo hanno mostrato le attiviste, le giudici, le registe, le giornaliste e tutte e tutti quelli che hanno con coerenza combattuto per i diritti fondamentali e la giustizia sociale, con e senza il sostegno delle cooperazioni istituzionali, quasi sempre inserite in un perimetro definito dalle forze militari.
Adesso che povertà e violenza esplodono davanti agli occhi del mondo, tutti piangono sui destini delle donne, sulle responsabilità verso chi ci ha aiutato, sugli errori commessi in venti anni. I crimini contro la popolazione civile afghana si erano accresciuti con il decrescere degli interessi americani e internazionali sul paese. Fino alla stretta, voluta da Trump, sugli accordi di Doha nel 2020 che l’attuale amministrazione americana non ha voluto fermare e l’opinione pubblica occidentale non ha saputo vedere.
Certo, ora, è importante assumere la responsabilità di combattere i fondamentalismi nostrani, ricordare ai nostri stati il dovere morale di fermare i rimpatri, concedere il diritto di asilo e non utilizzare i campi di detenzione alle periferie dell’Occidente.
Il nostro governo, anche attraverso il G20, deve negoziare con tutti i mezzi (whatever it takes?) l’apertura dei corridoi umanitari per chi vuole partire, ma soprattutto le condizioni per chi rimane.
Per noi femministe certo è prioritario, oltre all’impegno nell’accoglienza, agire attraverso le reti che già esistono, in Italia e nei circuiti internazionali, per far arrivare alle associazioni delle donne afghane, nel paese e nella diaspora, il sostegno, civile e istituzionale, necessario.
Ascoltiamole e ascoltiamo le reti femministe islamiche. I talebani certamente non sono cambiati, ma ora sanno che non possono continuare a uccidere e umiliare perché, comunque, le donne non taceranno.
Quello che possiamo fare noi, femministe di un occidente confuso e impaurito, è soprattutto riflettere sulle esperienze e sulle nuove consapevolezze dei nostri limiti per trasformare la solidarietà in forme nuove di relazione, in nuovi linguaggi sul mondo.
La pandemia ci sta insegnando che per “proteggere” occorre sconfiggere il continuum di violenza e propaganda che separa e domina, che crea il caos su cui, solo apparentemente, prosperano padri e padroni del nulla.