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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Il carcere come rappresaglia e vendetta

10 Luglio 2021
di Letizia Paolozzi

L’essere umano non finisce con i limiti del suo corpo; in effetti, abbraccia anche gli altri e il rapporto con gli altri. Non così in carcere dove, non da oggi, domina una forza negativa. “Chiavi e picconi in mano, vi abbattiamo come vitelli” sono le parole che i carabinieri ascoltano da alcuni dei telefonini dei trecento poliziotti penitenziari entrati la sera del 6 aprile 2020 nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere per dare, appunto, una lezione ai detenuti.
L’arrivo del virus rende ancora più pesante la condizione di chi si sente minacciato da un nemico invisibile. Corpi ammassati uno sull’altro e per questo più vulnerabili; impauriti da un male in agguato nei corridoi, in cortile, nei letti a castello delle celle: per evitare contatti rischiosi, arriva la notizia dell’interruzione delle visite, del blocco dei colloqui visivi con i familiari e gli avvocati, della cancellazione dei permessi.
In tempo di Covid-19 la vicinanza coatta rappresenta un aggravamento della pena. Se il contagio spinge a difendersi grazie alla separazione, nelle carceri separarsi risulta impossibile. Quanto all’opinione pubblica è distratta, ha altro da pensare in tempo di pace e ora di pandemia.
L’emergenza unita al sovraffollamento, alla promiscuità, alla vicinanza tra water, lavandino, dispensa, al numero crescente di soggetti con disagi psichiatrici senza un posto adeguato per accoglierli nutrono la rivolta.
L’11 marzo esplodono le proteste a Caltanissetta, Enna, Pescara, Avellino, Bologna, Palermo Pagliarelli, Genova, Campobasso, Trapani, Siracusa, Aversa. Da decenni non si vedevano detenuti sul tetto del carcere.
Diverse procure indagano se non ci sia stata una “regia occulta” dietro i disordini in 27 carceri italiane. Se e da chi (la criminalità organizzata?) sia arrivato “l’ordine” di far scattare le violenze quasi contemporaneamente.
Che qualcuno pianifichi e coordini dietro le quinte; che si eserciti “l’eterodirezione di capi criminali“, cioè una strumentalizzazione esterna così da poter ottenere amnistia e indulto, sono ipotesi dotate di qualche fondatezza, tuttavia altre ragioni possono aver concorso ad appiccare l’incendio. Risultato: tredici morti in due giorni, secondo le autorità “per overdose da medicinali saccheggiati durante i disordini nelle infermerie”.
Scatta l’idea di punire i rivoltosi, di vendicarsi perché “lo Stato siamo noi”. Si picchia e poi si aspetta a mandare i detenuti dal medico fino a quando non “avranno più segni”. Li si costringe a ispezioni intime ma spegnendo (o credendo di avere spento, perché la cosa che non avviene a Santa Maria Capua Vetere) le telecamere.
In carcere, la rappresaglia e la ferocia spesso s’incontrano: il direttore delle Vallette di Torino, al corrente delle botte, umiliazioni a persone in condizioni di evidente vulnerabilità, in un’intercettazione spiegava che “le coercizioni ci sono sempre state, ma abusive e non tracciate”.
L’informazione dunque diventa fondamentale per illuminare ciò che si tende a nascondere. Senza il ruolo dei media nulla sarebbe emerso della caserma di Bolzaneto durante le giornate di Genova (di cui ricorre tra pochi giorni il ventennale); del depistaggio nelle indagini sulla morte di Cucchi; del traffico di droga e torture nella caserma di Piacenza. Senza l’esposto (dal quale è nata l’inchiesta della Procura) del garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambirello, che raccolse le testimonianze a Santa Maria Capua Vetere, nulla si sarebbe mosso.
Senza giornali come “Il Riformista”, “Il Dubbio” “il manifesto” e il “Domani”, senza il ruolo storico del Partito radicale, dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, dell’associazione Antigone il carcere sarebbe dimenticato. D’altronde, quello che lì avviene, è “un racconto impopolare” (Luigi Ferrarella sul “Corriere della Sera” del 5 luglio).
Adesso si stanno conducendo perlomeno dieci inchieste (Melfi, Ascoli Piceno, Bologna etc.) per pestaggi legati alle rivolte del marzo 2020.
Comunque, il piacere di menare le mani, la sicurezza di godere di una qualche forma di impunità, non sono mai scomparsi dai luoghi di detenzione.
Pur senza nominarla, i comportamenti continuano da secoli a ispirarsi alla legge del taglione. I violenti sono trattati con quella medesima violenza che poi ritroviamo nei film, serie, spettacoli teatrali, romanzi.
Meglio dare la colpa a alcune “mele marce”? Il segretario della Lega, Matteo Salvini, è andato a portare la solidarietà perché “i quarantamila appartenenti alla polizia penitenziaria non sono tutti criminali”. Vero. Però quei gesti comparsi sui video appartengono a una cultura basata sulla brutalità, sulla coartazione.
I poliziotti lavorano in strutture segnate dalla povertà materiale e culturale. I detenuti sono cresciuti in quella povertà. Si ritrovano proletari contro proletari.
Per questo una si domanda se non sarebbe possibile spostare lo scontro su un altro terreno dal momento che, in carcere, il ladro, il malfattore, l’assassino è sottoposto a un potere molto più grande di lui.
Una grande resistente, Germaine Tillion, si domandava se fosse immaginabile dare priorità alla sofferenza a detrimento dei principi. Forse. Bisognerebbe però separare il crimine dal criminale e dunque trascendere i sentimenti personali di rancore, rappresaglia, vndetta. Alzi la mano chi ci riesce.

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