Le amiche femministe del “Gruppo del mercoledì” hanno da poco reso pubblico un nuovo testo intitolato semplicemente “Noi e il Covid-19”. Se ne discuterà pubblicamente mercoledì 23 giugno, dalle ore 17 (sulla pagina facebook della Casa internazionale delle donne di Roma: https://www.facebook.com/casaintdelledonneroma). Hanno rivolto un invito esplicito a alcuni uomini della sinistra e delle rete di maschile plurale, al quale credo sia importante rispondere.
Alla semplicità del titolo corrisponde una densità del testo, che nominando il vissuto personale tratteggia il nuovo paesaggio materiale e psicologico costruito dalla pandemia – e dai modi con cui è stata affrontata – per ognuno di noi, e per il mondo intero.
Il metodo del femminismo si dimostra fecondo: partire da sé non significa arrestarsi a psicologismi personali, ma prendere una misura giusta tra la realtà delle nostre relazioni – con noi stessi, con gli altri e con le cose – e la capacità di vedere e comprendere ciò che accade intorno a noi. Analizzando nello stesso tempo la forza e la direzione del nostro desiderio, la capacità di pensare e di agire il conflitto con la cura necessaria per evitare nuove violenze, materiali e simboliche.
Anch’io avverto il rischio che dopo tutti questi mesi di vita compressa, di fronte alle nuove incertezze e contraddizioni sulla “cura” e l’utilizzo dei vaccini, lo spauracchio delle varianti, l’ingiustizia feroce del mondo più povero e più popoloso abbandonato a se stesso da quello ricco e quasi interamente (forse) immunizzato, si cada in forme depressive.
Si era ripetuto “niente sarà come prima”, e invece tutto ci parla della voglia quasi ossessiva di tornare alla vecchia “normalità”. Con le stesse cose sbagliate.
Quale tipo di energia fa correre tanti giovani agli open days per vaccinarsi alla vigilia delle vacanze? Ci sarà anche una spinta vitalistica positiva? Orientata al cambiamento?
Ma vediamo anche più lucidamente ciò che il virus sembrava poter oscurare. Il documento è un programma politico: ribaltare il modello sanitario, riconoscere il valore delle vite degli anziani, e dei più giovani, vedere finalmente il lavoro precarizzato, se non schiavizzato, reagire al controllo pervasivo dei colossi tecnologici, rifiutare la gerarchia egoistica del mercato, opporsi al moltiplicarsi delle violenze, belliche, sessuali, istituzionali, linguistiche.
Il linguaggio. In fondo, è la nostra unica vera risorsa e speranza. Nell’interessante libretto di Walter Siti sul linguaggio letterario (e mediatico) si ricorda lo scambio tra Alice e Humpty – Dumpty: “Bisogna vedere se lei può dare alle parole questo significato”, e lui risponde: “bisogna semplicemente vedere chi comanda”. Se fosse del tutto vero non ci sarebbe che la rivolta violenta contro il potere: ma sappiamo che la violenza non garantisce dalle metamorfosi in altre forme odiose di potere.
È di una nuova forza simbolica che abbiamo bisogno se desideriamo cambiare le cose, cercare una vera libertà. A questo non si arriva senza superare criticamente culture politiche, comprese quelle di sinistra, i cui fondamenti risalgano a un tempo ormai antico. Precedente alle moderne rivoluzioni scientifiche, tecnologiche, economiche. Sguardi sul mondo ancora poco capaci di vedere e comprendere sul serio il cambiamento prodotto dalla rivoluzione delle donne, dalla crisi ambientale, dalle trasformazioni del lavoro e dalla sofferenza prodotta da un modo distorto di vivere il tempo della produzione e quello della riproduzione. Dalla volontà insopprimibile di chi soffre di cambiare la propria vita, di migrare altrove.
Perchè questa critica produca qualcosa è necessario interrogarsi anche su di sé, e credo che oggi tocchi a noi maschi. Siamo in gran parte responsabili delle cose che non vanno bene. Si potrebbe fare un lungo elenco: dalle guerre che non risolvono alcun problema causando centinaia di migliaia di vittime, milioni di profughi (vedi l’Afghanistan, il Medio Oriente, e tanti altri luoghi), alla crisi della Chiesa, della giustizia, della credibilità stessa della democrazia.
Per di più molti di noi reagiscono alla crisi che viviamo rivendicando apertamente il “ritorno” alle vecchie pratiche di dominio patriarcale. Anche dalle parti delle sinistre disperse e più o meno “progressiste”, e dei movimenti che si proponevano palingenesi salvifiche c’è una diffusa rimozione, inconsapevolezza, sordità maschile.
Mi interessa che nei gruppi di maschile plurale siano arrivati recentemente giovani che desiderano tentare un altro tipo di scambio tra uomini, distante dagli stereotipi che ci affliggono nei luoghi di lavoro, negli spogliatoi delle palestre e dei campetti da pallone, al bar. Uomini anche impegnati – diversamente dalla nostra generazione (quella del ’68 per intenderci) – in percorsi analitici. In vissuti più intensi nel rapporto con i figli e le loro madri. Appunto, un ripartire da sé.
Ma è adesso il momento di tentare, o ritentare, una pratica politica condivisa tra uomini e donne, aperta a ogni altra differente percezione del proprio sesso, corpo, desiderio. Solo una ricerca comune penso che possa vincere l’assedio della malinconia, la nostalgia di una normalità sbagliata, e condurci a una svolta inattesa in fondo al vicolo cieco in cui ci sentiamo spinti.