Primo esempio, a partire da me: cerco di traversare la strada (sulle strisce); un uomo, anzi, un ragazzo che conosce le grevi spiritosaggini romana grida: “Ammazza la vecchia col flit”. Devo considerare la frase una discriminazione (pur essendo corrispondente al vero che giovane non sono), devo supporre che dall’istigazione passerà all’atto quindi mandarlo davanti al giudice sperando che il suo dire venga considerato reato e dunque si becchi un aggravamento di pena?
Secondo esempio, dalla lettura dell’articolo di Mariuccia Salvi dal “Mattino” (del 5 maggio). La Fondazione Cesvi lancia l’allarme: a Napoli quasi uno su due minori (il 39 per cento) viene maltrattato. Non solo fisicamente giacché sottrarre ai bambini cura, attenzione, affetto è violenza.
Chi cresce in un inferno famigliare (condizione materiale drammatica, sfregiato quadro culturale, carenza di strumenti psicologici) potrebbe, a sua volta, trasformarsi in un maschio in una femmina senza cuore: individui plasmati dalla crudeltà del padre e della madre.
Nel ddl Zan ora in discussione al Senato si parla di “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza” per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.
Lo stesso Zan spiegava al “Corriere della Sera” (del 6 maggio) che “con questo ddl noi estendiamo reati della legge Mancino già previsti nel codice penale agli articoli 640 bis e 640 ter”. A parte che, nonostante la Mancino, la violenza si ripropone nelle manifestazioni, cortei, assembramenti, proteste, sgomberi, presenza di immigrati, gesti di odio degli uomini verso le donne, di quella norma si vuole riempire un vuoto? O non, piuttosto, si vuole affiancare al reato un’aggravante e dunque un aumento di pena attraverso una compressione di differenti soggetti e differenti aspetti della brutalità?
Mi produce molti interrogativi l’accostamento del “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere” alla disabilità. L’aggressione a una donna che si vorrebbe dominare, che sfugge al possesso, è comandata dagli stessi impulsi, reazioni di chi invece disprezza una sessualità ritenuta non conforme?
Ricorderei poi a quanti non se ne fossero accorti che trovarsi menomati da un ictus è condizione platealmente diversa da quella di chi per desiderio, amore, attrazione, ribellione alla società normativa, non rientra nel modello maschile/femminile.
Vedo amiche appassionarsi o contrastare il ddl e dunque dichiararsi pro e contro l’identità di genere, pro e contro la differenza sessuale. A dire il vero, questa credulità, questa frenetica fiducia in una legge mi lascia perplessa. A meno che, seguendo lo Spirito del Tempo, la discussione sul “sesso”, “sull’identità di genere” non rimandi a una definizione del soggetto che subisce violenza esclusivamente come vittima.
Se è vero, come dice Tamar Pitch, che il ddl Zan vuole “estendere ad alcune minoranze le tutele già accordate ad altre minoranze dalla legge Mancino”, significa che io lesbica, transessuale, queer, bisessuale, dovrei riconoscermi in una legge che mi sottrae orgoglio, dignità, soggettività e mi vede solo come perseguitata dalla trans-omofobia?
Vorrei sfuggire al meccanismo per cui la proliferazione dei diritti e delle identità delle “vittime”, anziché modificare la cultura (maschile? patriarcale? capitalista?) che produce la violenza contro l’altro quando è percepito “diverso”, irrigidisse questa immagine di cosiddette “minoranze”. Soggetti nominati con una precisione definitoria foriera solo di ulteriori controversie.
Non mi fido di un’identità legata a una somma di minorità secondarie. La libertà che cerco con il femminismo è prima di tutto di ogni singola donna, persona. E cresce nella relazione con le altre, gli altri, singolarità irriducibili, qualunque sia il modo in cui vivono il proprio sesso, corpo, desiderio, idea di sé e del mondo.
Vedo, paradossalmente, il rischio di nuovi normativismi limitativi. Altro che rivoluzioni sessuali!
C’è poi, in agguato, una minaccia alla libertà di espressione proprio a causa del legame con la legge Mancino: il relativo articolo del codice penale ora persegue la “propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Dunque poteva e può essere considerato reato anche solo dire pubblicamente che una razza è superiore a un’altra. E adesso, per esempio, uscirsene col pensiero che “gli uomini sono superiori alle donne” e “gli etero ai gay”? O il contrario.
Ma idee sbagliate, davvero si curano con la galera? In Francia un funzionario pubblico zelante delle “Pari opportunità” ha chiesto di ritirare dal mercato un libro intitolato “Odio gli uomini”. Gli ha fatto pubblicità. Ma non mi piace ugualmente.
La violenza ha diverse facce e sarebbe bene non schiacciarle una sull’altra. Per questo non penso sia possibile rispondere alla domanda di riparazione ricorrendo soprattutto al codice, con l’aumento delle pene, con la moltiplicazione dei reati.
Peraltro, in questo momento vedo una giustizia ferita a morte da chi l’amministra. Affermare il “mai più” di comportamenti che emarginano, penalizzano, offendono e feriscono, significa piuttosto proporsi di lavorare su una diversa strategia, in un orizzonte simbolico e culturale meno schierato tra opposte fazioni. Meno aggrappato alla norma. In fondo, da tempo le leggi non sono più divine. E se si allarga la sfera dei diritti come si vuol fare con il ddl Zan, tra i diritti esiste pure quello di critica.