RIFKIN’S FESTIVAL – Film di Woody Allen. Con Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel, Elena Anaya, Christopher Waltz, Sergi López, USA, Spagna, Italia 2020. Fotografia di Vittorio Storaro, musiche di Stephane Wrembel-
È ormai noto che Woody Allen non è più bene accetto negli USA dopo l’ennesima riproposizione mediatica del caso di presunte molestie a Dylan, la figlia adottiva avuta con Mia Farrow. Ciò nonostante nel 1993 ci sia stato un giudizio in cui le accuse non sembravano avere fondamenta credibili per andare a un processo (così le conclusioni dello Yale New Haven Hospital e dei servizi sociali dello Stato di New York). Per queste ragioni il regista torna a girare (e distribuire) in Europa, stavolta in Spagna a distanza di tredici anni da “Viky Cristina Barcellona”.
Nel film “Rifkin’s Festival” Allen esplicita la sua passione per il cinema europeo attraverso una serie di citazioni in bianco e nero di film di Fellini, Bergman, Buñuel, Truffaut, Godard, Lelouch.
Mort Rifkin (interpretato da Wallace Shawn), ex docente di storia del cinema “classico” specializzato in nouvelle vague francese, accompagna la moglie Sue (interpretata da Gina Gershon) al Festival Internazionale del cinema di San Sebastian. Lei cura l’ufficio-stampa di una serie di cineasti tra cui il regista Philippe (interpretato da Louis Garrel con il nome del padre regista), giovane promessa francese, in concorso con un film pretenzioso dal titolo “Apocalyptic Dreams”.
Rifkin da molti anni cerca di scrivere un romanzo, il libro della vita che deve essere un capolavoro, e continua a strappare ogni foglio che inizia a scrivere, avendo un così alto ideale dell’io. A San Sebastian Mort comincia a sospettare che la moglie abbia una relazione con Philippe che travalichi il rapporto di lavoro, inizia a sentirsi male e si ritrova a farsi visitare dalla dottoressa Jo Rochas (interpretata da Elena Anaya), una cardiologa molto affascinante. Naturalmente Mort al cuore non ha nulla in quanto i suoi dolori sono dovuti da un lato alla somatizzazione della gelosia, dall’altro all’esilio forzato da New York, la sua città-isola che gli infonde sicurezza.
Anche Jo è in una situazione difficile, ha sposato in seconde nozze Paco (interpretato da Sergi López), un pittore spagnolo fedifrago e narcisista, e la sua situazione matrimoniale è in crisi. Così Mort finisce per invaghirsi di lei.
Come già fatto altre volte Woody Allen delega un altro attore a interpretare la parte di se stesso: Larry David “In basta che funzioni” del 2006, Jesse Eisenberg in “Café society” del 2016, o Timothée Chalamet nel recente “Un giorno di pioggia a New York” del 2019. Qui il compito lo assolve Wallace Shawn, forse un po’ più simpatico e un po’ meno nevrotico, da sempre amico del regista.
Il film è narrato come un’unica seduta psicoanalitica in cui Mort Rifkin racconta tutto il suo vissuto durante il periodo del Festival basco, inframezzata dai sogni in bianco e nero del protagonista che gli ricordano le aspettative dei genitori, e rappresentano i suoi desideri e le sue paure. I pensieri di Mort prendono la forma dell’identificazione in ironiche citazioni filmiche: un momento è il Jules tradito in “Jules e Jim” (1962) di Truffaut o il truffaldino e seducente Michel Poiccard in “Fino all’ultimo respiro” (1960) di Godard, in un altro invece gioca a scacchi con la morte (interpretata da Cristopher Waltz) di bergmaniana memoria (“Il settimo sigillo” del 1957). È presente anche una citazione di “Quarto potere” di Orson Welles del 1941, forse unico omaggio di Allen a un film non europeo, mentre fa dire al suo alter-ego che non ama i film americani come “Susanna” di Howard Hawks del 1938, “La vita è meravigliosa” di Frank Capra del 1946 e “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder del 1959.
A di là dei giudizi che Mort dà ai film, mi pare comunque che “Rifkin’s Festival” celebri la settima arte con rispetto, romanticismo, tanta ironia e anche con un pizzico di nostalgia.
Come sempre nei film di Woody Allen le realtà urbane giocano un ruolo importante. Anche questo film, infatti, è un’occasione per apprezzare la città basca di San Sebastián, passata da centro militare a centro commerciale e turistico verso la fine dell’Ottocento. È stata una località di villeggiatura della regina Isabella II di Spagna e durante la Belle époque si arricchì di molti edifici diventando uno dei centri balneari più vivaci del panorama europeo. È stata poi rilanciata negli anni ’50 con la costruzione del nuovo quartiere dell’Amara e l’istituzione del Festival Internazionale del cinema. La splendida fotografia di Vittorio Storaro un po’ patinata da cinema a colori vecchio stampo, oltre alle celebri Playa de la Concha e Playa de Ondarreta, mette in evidenza l’impianto urbano classico, gli edifici in stile liberty, il lungomare e gli assi alberati di gusto francese con le panchine traforate. In ogni caso le atmosfere evocate da Allen e Storaro sono di grande charme e fanno venire tanta voglia di viaggiare.