La proposta di Enrico Letta, una tassa sulla successione ai più ricchi per aiutare (a studiare e lavorare) i giovani poveri, ha certo il merito di stimolare una discussione. Con un sapore un po’ più “di sinistra”.
In un paese dove i sempre più poveri sono sempre più desiderosi di identificarsi con i sempre più ricchi, cadendo nel sempre più perfido tranello delle destre, è bene fermarsi a riflettere su come stanno effettivamente le cose.
Si parla di soldi e di giustizia sociale, ma la questione è ricca di implicazioni simboliche. È giusto che la persona che si arricchisce molto, magari grazie allo sfruttamento del lavoro di tante altre persone, trasferisca poi il denaro e i beni accumulati solo ai parenti?
Sembra che la parola latina heredem, da cui erede e eredità, affondi il suo significato in radici che possono indicare sia impradonirsi, carpire, sia la situazione di un vuoto che deve essere riempito.
Attorno all’eredità crescono sentimenti diversamente negativi. Brama di possesso senza merito, passiva soddisfazione di un “diritto” che colma una mancanza. Certo, insieme ai beni materiali, si possono ereditare anche precetti e ideali, e riconoscere lo scambio di buoni sentimenti.
C’è sempre il rischio, però, di fraintendimenti. La stessa proposta di Letta ha avuto osservazioni critiche “da sinistra”. Vincenzo Visco – pur apprezzando il fatto che si parli finalmente di correggere ingiustizie fiscali – la considera tutto sommato un intervento marginale, e non apprezza la logica del nuovo “bonus” una tantum ai giovani (per i quali sarebbe meglio investire diversamente). Non mancano osservazioni più affilate contro il paternalismo implicito: caro giovane, io Stato ti giro dei quattrini, ma ti dico anche come li devi usare per studiare e soprattutto lavorare….
Forse bisognerebbe fare coraggiosamente un altro passo avanti, e chiedersi se non sia ormai il momento di mettere in discussione radicalmente l’intero meccanismo in cui si produce e si distribuisce la ricchezza, si lavora e si vive, in genere spinti da un più o meno consapevole desiderio di libertà e di felicità.
Mi piacerebbe che a sinistra – ma, perché no, anche a destra – si riprendesse o si prendesse per la prima volta in mano il libro – uscito nel 2018 – di David Graeber “Bullshit jobs” (Garzanti), termine idiomatico che più o meno significa “lavori del cavolo”. Vi si afferma (insieme a moltissime altre cose interessanti, in 350 pagine) più o meno questo: la sempre più spinta innovazione tecnologica è già vicina a garantire livelli decenti di sopravvivenza a tutti, con molto meno lavoro di una volta (si avvera la ben nota previsione di Keynes?). E questo può rompere gli equilibri del potere capitalistico e le violente ingiustizie che si porta dietro. Ecco allora che proliferano innumerevoli “lavori del cavolo” (particolarmente nella moltiplicazione delle torpide burocrazie al servizio degli Stati e delle aziende): una realtà percepita da circa il 40 per cento delle persone, le quali ritengono appunto di sprecare tempo in attività sgradevoli e inutili.
La soluzione proposta da Graeber – che purtroppo ci ha lasciato l’anno scorso – è che il mondo funzionerebbe meglio e saremmo tutti più liberi (e forse più felici?) se si garantisse a tutti un reddito non per sopravvivere, ma per vivere. Spezzando il nesso tra reddito e lavoro.
Ma allora nessuno farebbe più nulla? Penserete voi che diffidate dell’animo umano.
Io concordo con Graeber che solo una insignificante minoranza sposerebbe il completo ozio. Un danno molto minore di quello prodotto dall’attuale sistema ingiusto e stupido.
Meditiamo sull’eredità di questo simpatico studioso e attivista anarchico.