Pubblichiamo l’intervento di Letizia Paolozzi sul numero 59 della rivista “Alternative per il socialismo”, che ospita una larga sezione sul centenario del Pci, con articoli di Rossana Rossanda, Fausto Bertinotti, Paolo Spriano, Aldo Tortorella, Paolo Favilli, Luciano Beolchi,Dario Danti e Niccolò Pecorini. I rapporti tra Partito comunista femminismo e questione femminile, sono affrontati anche da Critica Marxista nel n. 1 – 2021 “Cento anni dopo”, con contributi di Fiamma Lussana (La “via italiana” all’emancipazionismo), Maria Luisa Boccia (Femministe e comuniste), Fulvia Bandoli (Importanza e limiti dell’ambientalismo nel Pci), Franca Chiaromonte e Annamaria Carloni (La nostra Fgci tra partito e movimenti), Rinalda Carati (Il partito-comunità come educazione sentimentale). Vedi sommario completo su https://criticamarxista.net
E’ all’incirca il 1975. Il Pci possiede ancora un’anima, perlomeno a sentire operai, braccianti, anche insegnanti, giovani, donne decise a votarlo. Quanto alle contraddizioni, esploderanno in seguito.
Adesso, approfittando dei cent’anni dalla nascita di un’organizzazione politica scomparsa da tempo, si ripesca dai ricordi individuali sepolti nel pozzo della memoria collettiva. Torna la vicenda costruita intorno a un nome – Partito comunista italiano – che aveva un progetto di trasformazione, accompagnato da migliaia di pezzi di vita. Balzano alla superficie canzoni, giornali, libri (almeno dieci scritti dal comunista albanese Enver Hoxha), pubblicati dagli Editori Riuniti. Dove saranno? Probabilmente spediti in cantina.
In massa si è incrociato il Pci; delusioni dopo le illusioni. Oppure, ipotesi abbastanza consistente, si intende restituire corpo a un fantasma, dichiarare pubblicamente “Io il Partito lo conoscevo bene”
Srotolando il filo dal ’75, dopo la vittoria alle amministrative segue un balzo in avanti con le elezioni – anticipate – per il rinnovo del Parlamento.
A questo punto Enrico Berlinguer se ne torna fuori (l’aveva già detto dopo il golpe di Pinochet e l’assassinio di Allende) con la proposta del “nuovo, grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. In realtà, Berlinguer non crede che il primo monocolore Andreotti, cosiddetto “governo delle astensioni” del quale Pci e Psi astenendosi autorizzano il varo, sia la traduzione del compromesso storico, l’astuzia per arrivare al governo.
Applausi formali alla proposta. Formali perché il consenso si accompagna a forti mal di pancia ma in pochi confessano di avere dei dubbi (tra i pochi, Longo e Terracini). Vedetela come un classico: la parola del segretario viene accolta a scatola chiusa. E’ l’autorità, bellezza!
Eppure, in quel preciso momento urgerebbe capire quale risposta dare a un’inflazione del 20%. E al debito pubblico.
Fideisticamente, chi va a iscriversi al Pci non ci pensa. Prendiamo la vicenda di una giovane donna che, pur ravvisando lo squilibrio di potere, di opportunità, di mezzi tra i due sessi, si è intestardita a voler frequentare questo luogo plasmato dagli uomini assecondando i loro orari, comportamenti, gusti, abitudini. Ma che corrisponde a un “vero” partito. Come tutti, lei si porta appresso un passato e il passato lascia sempre un segno. D’altronde, a quel tempo non è semplice scollarsi di dosso la scansione “Marx, Lenin, Mao Tse-Tung”. I gruppi nati dal Pci e suoi contestatori, benché si adoperino per evitare con gesti di scarto e passi a lato il carico ideologico che i partiti della sinistra si trascinano appresso, non sembrano riuscirci.
Dopo il temporale del Maggio francese, uno degli slogan preferiti proclama: “Casa, scuola, fabbrica, quartiere, la nostra lotta è per il potere”. Roba da rabbrividire, riascoltata oggi. Allora, un’ovvietà dal momento che schiere di ragazzi e ragazze sognano la redenzione e non le “riforme di struttura”.
Anche la giovane donna, che troviamo davanti ai cancelli della Fatme (fabbrica romana attiva dal 1918 al 1994 nei settori dell’elettronica e delle telecomunicazioni), vagheggia il riscatto e aspira al sacrificio. Segue le 150 ore. Ci crede; le considera una prova culturale delle avanguardie operaie. Tuttavia, dovendo allargare il perimetro di “classe”, il Petrolchimico di Gela è il luogo dove può incontrare l’operaio-massa, la mitica metamorfosi dei contadini venuti dai borghi e dai paesi vicini.
Scende dunque al Sud. Ha letto “Contro la questione meridionale” 1). La militanza le insegna a prendere parola (è stata fino a quell’istante pressoché muta nelle riunioni), a dare valore alle relazioni, ai corpi che si avvicinano grazie alla scrittura dei volantini, alla loro diffusione. La busta-paga le spiega i modi per introdursi nelle pieghe dello sfruttamento. Accumula sapere dal racconto vivo degli operai sui ritmi, sulla nocività; scopre le lotte per la difesa della salute e del proprio corpo.
Straordinaria emozione: all’improvviso gli obiettivi del gruppo convincono. Quello degli aumenti uguali per tutti; quello delle 37 ore pagate quaranta. Predomina un inesausto lanciare scadenze. Si tratta di uscire di casa all’alba per essere pronti all’entrata dei turni davanti ai cancelli della fabbrica: una sorta di gemellaggio, di comunione spirituale con lo sfruttamento.
Di un’assemblea interna la colpisce la violenza, la rabbia quasi teatrale degli operai che però, se sono pronti a organizzare il corteo, la manifestazione, se hanno l’intelligenza per ribaltare il rapporto di potere con i capi, con i delegati di reparto, a rappresentarli nel conflitto con il “padrone” puntano regolarmente sul sindacato. Non sul gruppo.
Sarà anche questa tra le motivazioni che spingono la giovane donna a entrare in un partito effettivo: sentirsi dalla parte giusta?
Dal Petrolchimico, polo di sviluppo o cattedrale nel deserto, escono concimi chimici e polimeri per materie plastiche. Un complesso diviso in quattro isole con la centrale idroelettrica, i magazzini, i binari della ferrovia. Il mare, quel mare che era dolce, pare inghiottito dalle torri metalliche, dalle trivelle degli impianti.
Con i tecnici, con gli impiegati dell’Eni, calati dal nord a sovraintendere, o meglio, a comandare, non c’è scambio. La giovane donna abita lontano dal villaggio residenziale dell’Eni. È un’esperienza, la sua, che termina troppo presto.
E troppo presto la citazione della sovversione si deforma. Da collera per lo sfruttamento, gli slogan sono sostituiti dal rumore delle armi. Qualcuno condivide; altri si allontanano dal regno della politica; altri ancora hanno intenzione di insistere nell’impegno rosso ed esperto.
A lei, comunque, “il coraggio di finire” 2) costa molto; un addio drammatico, un vuoto da riempire. Nemmeno fosse un amore incancellabile.
Passa sotto una sezione del Pci ma la trova chiusa. Ci riprova. Per la tessera deve attendere: c’è di mezzo la condanna a un anno per aver “preso la parola in un corteo non autorizzato”.
Esclusi i ripiegamenti, bisogna tenere accesa la fiammella, avere uno scopo, un obiettivo, che garantisca la condivisione: magari nel Pci è ancora possibile nonostante l’incomprensione di fondo tra le sue attese di militante e il sentire comune dei compagni incerti tra istanze sociali e sogno governista.
Scoperta: sia nel gruppo sia nel Partito gli uomini hanno un peso maggiore delle donne. Contano di più. Per ora, non se ne preoccupa. Quanto alla sottovalutazione di un sesso meno pagato, meno valorizzato, meno rappresentato, ritiene che si debba portare pazienza. In fondo, gli uomini trasmettono sapere sul mondo, sulla politica, sull’agire collettivo.
Perciò, nutrendo tanta ammirazione per il sesso maschile, definirla femminista non sarebbe giusto. Certo, la cronaca per immagini conferma che la giovane donna abbia avuto dei baluginii, dei lampi di libertà femminile: ma ad angustiarla non è il rapporto di odio e amore con l’uomo o la necessità di sottrarsi al dominio maschile.
Qualche passo in direzione del “personale che è politico” l’ha effettuato organizzando riunioni separate, condotte in semiclandestinità. Denunciata dalla compagna zelante, ne è seguito una specie di pubblico processo contro questa manovra considerata pericolosa, foriera di disgregazione: davanti alla fabbrica, nell’occupazione delle case, bisogna presentarsi insieme, maschi e femmine.
L’indicazione, in fondo, è che le donne rimangano al loro posto mentre l’ordine simbolico continua a dettarlo una voce maschile. Per essere riconosciute, “viste”, occorre prodursi in una buona imitazione di quel sesso che parla in nome di tutti e due; che, insomma, ha sempre l’ultima parola.
Il femminismo impaurisce gli uomini? Trovarsi tra simili, nel gruppo di autocoscienza, partire da sé, nominare le proprie specifiche contraddizioni suona male alle orecchie dei compagni.
Qualcuna disobbedisce. Succede pure nel Pci. Contemporaneamente, fuori dalle organizzazioni politiche tradizionali, fioriscono librerie, collettivi, vacanze tra donne. “E si farà l’amore ognuno come gli va” (Lucio Dalla). Si sconquassano gli affetti oppure si sospendono per una “pausa di riflessione” che annuncia tempesta.
Il mondo femminile in subbuglio insiste che è tempo di ridere, ballare, fare progetti, sperimentare pratiche politiche.
Vita e politica si incrociano. Senza separare lo spazio della serietà da quello della festa. Arriva la rottura dei codici prestabiliti; le reti femminili nuove, energiche sono una provocazione alla società maschile.
Tuttavia “la vita nova” è artigliata a quella antica; la giovane donna insegue un luogo dove la rivoluzione sia ancora possibile; dove gli operai si considerino un soggetto e il Partito abbia i mezzi per appoggiarli, rovesciando ingiustizia e sfruttamento. Addirittura, un’organizzazione in funzione della radicalità, in grado di ridare fiato all’antagonismo di classe, di ritessere la tela dei movimenti, lacerata dalla violenza della lotta armata.
Tra i dirigenti del Pci c’è qualche operaio ma senza particolari simpatie per gli “estremisti”. Dalla scena pubblica lentamente si eclissano cultura, aspirazioni, racconto dello sfruttamento. Meglio affidare al voto la “questione sociale”? La difesa degli interessi della classe operaia si allarga a quella dei commercianti, insegnanti, medici, notai. Polverizzate le situazioni materiali, le condizioni di lavoro, resistono i meccanismi della forma-partito.
Non che nelle riunioni non si discuta dei lavoratori però l’umiliazione nel reparto, il divario di potere non colpisce particolarmente. Il discorso batte sulla modernizzazione, quasi che in fabbrica sia arrivato “il mondo nuovo”. Il Pci non ha interesse alla coppia rivoluzione-rivolta; potere-desiderio; legge-violenza. Imbarazzano i pensatori dell’ombra, da Sade a Nietzsche a Freud.
Alla giovane donna non piace granché di venire inserita tra le “intellettuali” di Partito dalla responsabile femminile, Adriana Seroni. Tuttavia, la dirigente comunista mostra una reale passione, non soltanto curiosità, per il cambiamento che si sta determinando nella coscienza delle donne. Altre figure come Marcella Ferrara o, più tardi, Livia Turco, coltivano lo stesso entusiasmo.
Nel Pci il modello di vita per le donne ruota intorno all’emancipazione e contemporaneamente menziona la solidarietà (qualcuna usa il termine “sorellanza”). L’avvicinamento spontaneo tra “sorelle di sesso” rende più forti, più combattive. Un vincolo lega le une alle altre, non solo la complicità per il comune lamento sulle inadempienze maschili.
Questo vincolo si ritrova nelle Commissioni femminili benché corrispondano sempre meno al “bisogno di altri luoghi, di spazi di libertà simbolica, di modi di fare politica diversi da quelli tradizionali”.
Nelle Commissioni le compagne sopportano a denti stretti la separazione tra “specifico femminile” (per cui alle donne si appaltano i temi della maternità, del lavoro, del welfare, della violenza, dell’aborto) e “temi generali”. Declinare insieme emancipazione e liberazione ha il merito di rassicurare quelle comuniste che non intendono rinunciare all’esperienza femminista.
Quanto al “sesso forte”, gli uomini si accompagnano agli uomini. Sottobraccio, passeggiano in coppia, confidandosi discorsi che – suppongono – le donne non sarebbero degne di ascoltare.
Salutano a mezza bocca; è palese il loro imbarazzo: forse, avvicinando una compagna, sfiorano un campo minaccioso, quello della sessualità.
Nella sessualità è implicata la decisione se avere o no un bambino, cioè l’interruzione di gravidanza. L’aborto – secondo la giovane donna – è un problema maschile dal momento che l’uomo impone i suoi desideri senza rischiare. Ma le donne cominciano a ribellarsi; sottraggono consenso, ammirazione, dedizione ai desideri dell’uomo. Tra prese di distanza, respingimenti, congedi, c’è l’esigenza di abrogare il reato di aborto previsto dal codice Rocco.
“L’utero è mio e me lo gestisco io” ripetono le femministe: per il piacere di chi devo restare incinta? (la domanda se la pongono alla Libreria delle donne di Milano, nata nel ’75, ancora oggi attiva, che ha prodotto libri, testi, pensieri in grado di dare agio alle donne e Sottosopra, una rivista femminista dalla periodicità irregolare, uscita per la prima volta nel ’72).
Il terreno sotto i piedi degli uomini sta franando. La sessualità non è più un interdetto 4). In effetti, lo slogan “Tremate, tremate, le streghe son tornate” lascia presagire che lo stato di sottomissione femminile sia pronto a sfarinarsi.
Per le streghe l’educazione sentimentale è arrivata attraverso alcuni libri: intanto, Kate Millet con “La politica del sesso” 5) sulla necessità per le donne di affermarsi attraverso la polemica e la contrapposizione.
A seguire, Luisa Abbà, Gabriella Ferri, Giorgio Lazzaretto, Elena Medi, Silvia Motta con “La coscienza di sfruttata” 6) che inseriscono la questione delle donne negli schemi marxisti, oscillando tra sfruttamento e oppressione.
È un po’ la posizione della giovane donna alla ricerca di nuovi schemi mentali ma non ancora convinta della necessità di congedarsi da quella sinistra dove pure ha la sensazione di non esistere. Ne deriva una voglia insana e poco controllata di alzare continue polemiche. E’ la protesta dell’isterica?
Altri testi importanti: Betty Friedan nella “Mistica della femminilità” 7) sottolinea la crisi di identità femminile e spinge per la conquista di una identità sociale attraverso il lavoro.
Luce Irigaray mostra l’occultamento della sessualità, continuamente misurata secondo parametri maschili 8).
Infine, le riflessioni teoriche di Carla Lonzi di cui una parte contenuta nel diario, tenuto tra il 1972 e il 1977 9).
Man mano che si precisa l’idea della libertà femminile, si sopporta meno l’aggressività maschile connotata dai giochi burocratici e leaderistici.
Gli uomini nei comizi hanno toni alti, una abbondante retorica. Ritengono che serva a puntellare la virilità e si ascoltano soddisfatti. Per il sesso femminile è quasi impossibile emularli.
Troppo grande la timidezza, l’ironia, il senso di concretezza?
Tra le compagne del Pci e fuori dal Pci la parola “disagio” risuona sempre più spesso; “lo scacco” invece è poco citato. Rivelerebbe quella singolare insoddisfazione che si traduce in oscillazione tra “voglia di vincere” ed ”estraneità” al mondo, alle sue leggi, ai suoi codici. In fondo, barattare le decisioni altrui con l’inclusione, rinunciando ad avere voce in capitolo, si traduce in una fatica snervante.
Molte si aggrappano all’abbigliamento non eccentrico, quasi monacale. Assumono atteggiamenti fraterni, da pari grado, adatti a un luogo dove gli uomini hanno un’importanza maggiore delle donne 10).
Nelle assemblee di movimento compare il gesto del pollice e dell’indice alzati a simbolo della P38: è il sigillo dell’Autonomia operaia. Quando esplode la vicenda di Lama all’Università “Via via la nuova polizia” scandiscono gli ex compagni della giovane donna che non appoggia questa occupazione da parte del sindacato e la prova di forza del servizio d’ordine della Cgil. Comunque, si accorge che la violenza della risposta prelude a un futuro cupo.
Circolano reazioni rabbiose, sconosciute, principalmente contro la durezza del capitalismo e il modello di sviluppo che si viene affermando. La contestazione a Lama è del ’77; gli anni Ottanta sono quelli in cui ci si convincerà che le cose non possono andare diversamente da come vanno. Il liberismo o neoliberismo di Reagan, della Thatcher non hanno a cuore le responsabilità sociali.
Nel 78, il rapimento di Moro. La giovane donna fa parte di un gruppo femminista dove alcune sono mogli, figlie di dirigenti comunisti. Immaginano che sarebbe potuto accadere anche a loro di patire quella violenza sulla propria pelle. Il segretario della Dc è vittima del sistema di cui rappresenta una delle colonne, mentre con gli artefici del sequestro magari si sono condivisi tratti di strada.
Dopo la morte di Moro e il secondo governo Andreotti, Berlinguer chiude la solidarietà nazionale e Craxi decide di andare al governo con la Dc e gli altri partiti laici senza il Pci. Nasce il pentapartito: democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e Pli. Non è un bel vedere. Immobilismo più capitalismo assistenziale democristiano; il ceto politico sembra conservato in naftalina. Con l’esclusione del protagonismo “modernizzatore” di Craxi, abile nell’attrarre l’attenzione di non pochi “riformisti” del Pci.
Verso la fine degli anni Settanta, pur sfornito di chiavi interpretative psicoanalitiche, il Partito prova a sondare i movimenti dell’animo. Rintraccia o almeno si sforza di ampliare il vocabolario tradizionale.
A Milano si tiene un convegno sui “Sentimenti e la politica” mentre a Roma, alla festa dell’Unità a Caracalla, arriva lo psicoanalista Eugenio Gaddini che, assieme a Luigi Comencini discute con il pubblico di “rivoluzione del privato”. Una rivoluzione concernente principalmente la sinistra, che di sentimenti sa pochissimo e di privato ancora meno.
Le donne sono un soggetto riconosciuto eppure disturbante. Si levano voci ostili. O polemiche contro le posizioni esacerbate, pur presenti, nel movimento. Antonello Trombadori dedica un sonetto satirico alle “femministe di partito” accostate a incolpevoli dirigenti femminili della Democrazia cristiana 11).
Dieci anni dopo, quando nel Partito comunista ci si divide sulla “svolta”, Miriam Mafai attacca “il pensiero della differenza” 12) , che si presenta “come un tutto compatto, severo, rigoroso, totalizzante”; ridicolizza “le vedove di Lenin” con l’accusa di non amare le riforme, di essere lontane dalle esperienze e dal vissuto quotidiano delle donne, da una analisi delle loro condizioni materiali. Quel che è peggio, si esprimono con un linguaggio ancora “più astruso e incomprensibile” del politichese maschile.
Sono cresciute da parte femminile le accuse nei confronti del “Partito di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer”, insensibile alla politica delle donne. Il fossato dipende principalmente dall’incapacità del Pci di leggere cosa stia cambiando nel Paese.
Come “La ronda di notte” (il Rijksmuseum di Amsterdam conserva il quadro di Rembrandt del 1642), immersa nel buio per via del deterioramento delle vernici, è stata dipinta in piena luce, così il Partito equivoca sui bisogni, sui desideri femminili giacché preferisce applicare all’Italia, ai diversi soggetti, le categorie di sempre.
Non comprende che le grandi riforme dal divorzio al Servizio sanitario nazionale, dal diritto di famiglia alla legge 180 sull’abolizione dei manicomi, fino alla 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza si collegano alla “politicizzazione del quotidiano”, alla contestazione delle gerarchie, della delega, portate avanti dalle donne. Comunque, un campanello d’allarme deve essere risuonato per il Pci, il Psi e in parte per la Democrazia cristiana se avvertono il bisogno di tradurre in riforme la pressione dei movimenti e realizzano delle buone leggi, leggi di civiltà nel decennio delle riforme.
Molte compagne continuano a oscillare tra quel separatismo che Gramsci chiamava “il momento di scissione”, rifiuto di un sistema oppressivo, e il partito; questa oscillazione è stata battezzata “doppia militanza”.
Per la giovane donna praticare “la doppia militanza”, da un lato, nel lavoro al l’Unità equivale alla conferma di poter continuare, nel giornale di Partito, a tessere attraverso la scrittura relazioni vicine, non astratte con i lettori, con le lettrici; dall’altro, considera importante nominare il femminismo, i suoi vantaggi e i suoi inciampi.
Infatti, realizzerà – quando l’Unità non più “organo” di partito ma “giornale fondato da Antonio Gramsci” cerca una propria via autonoma, grazie all’allora condirettore del l’Unità, Piero Sansonetti e al direttore, Giuseppe Caldarola – la pagina “L’una e l’altro” che guarda alla vita quotidiana, al rapporto tra i sessi. Il sito DeA 13) con Alberto Leiss, Bia Sarasini, Monica Luongo prosegue in quel lavoro.
Tutto questo con il Pci che si riconosce sempre meno nel suo giornale e la ribellione di una redazione decisa a rivendicare “l’autonomia”, tagliando i fili dell’appartenenza politica. Una comunità di giornalisti e giornaliste cavalca la notizia respingendo le mediazioni, le diplomatizzazioni, le censure di Botteghe Oscure.
Rossana Rossanda ha ragione a scrivere: “L’identità di un giornale non può dipendere da un partito, fosse anche dal migliore dei partiti possibili”.
Nei paesi dell’Est i sistemi politici somigliano a lande desolate; cade in rovina l’idea stessa di rivoluzione. Con l’eccezione di quella delle donne che non scompaiono, nonostante la crisi e il terrorismo.
Nell’86, quando le ceneri radioattive di Chernobyl scendono sui campi dell’Italia del nord e le mamme temono per il latte dei bambini, le comuniste insieme alle femministe in un convegno: “Scienza Potere e Coscienza del limite” difendono l’ambiente, l’aria che si respira. E’ il capovolgimento della politica seguita fino allora dal Pci.
Alla manifestazione, indetta dalle femministe, aderiscono le comuniste. Bisogna chiudere le centrali e finirla con il nucleare 14).
A dimostrazione di questa saldatura, la Carta itinerante delle comuniste si intitola “Dalle donne la forza delle donne” (1987). Intuizione giusta: la relazione sostiene il desiderio femminile di presa sul mondo.
Tuttavia, alle pagine iniziali della Carta che iniziava con “Siamo donne comuniste”, viene rapidamente aggiunta una seconda parte di obiettivi, di valori come la pace, il lavoro, l’ambiente. Obbedendo a una vecchia tradizione, ci si aggrappa a un elenco di temi senza affrontare i nodi del presente.
La Carta ha successo e il successo porta in Parlamento molte candidate nelle liste del maggior partito della sinistra. La rappresentanza femminile così stentata, a cominciare dalla debole presenza negli organismi dirigenti, preoccupa il Pci. E’ indubbio però che cicatrici patriarcali e maschiliste segnano il costume, gli atteggiamenti, la morale dei partiti, nessuno escluso. Ancora oggi non sono scomparse.
Al 17esimo congresso nazionale, si annuncia che “il numero delle compagne nel Comitato federale dovrà essere elevato in rapporto alla percentuale del 25%”. Dunque, senza discutere di qualità, merito, capacità delle singole viene data importanza a una percentuale burocratica, una meccanica concezione della rappresentanza. Ne deriva una forma di tutela, di protezione, una specie di riserva indiana a costo di sentirsi dire “È entrata perché è una donna”. In questo modo, l’immagine di un sesso continua a essere socialmente debole e deprezzata.
Il dibattito sulle varie forme di “azioni positive” prosegue. Tuttavia, sarà soltanto durante una catastrofe come quella del Coronavirus che la stampa, i media si accorgeranno dell’empatia verso i propri concittadini, della competenza nel creare legame sociale dimostrata nel governare da Angela Merkel o Jacinda Ardern.
La vicenda della giovane donna o meglio, di quella che si definisce ormai femminista, può concludersi con il mutamento di nome del Pci. Non si accontenta di fare “come se il Pci non ci fosse” come disse Livia Turco 15).
La svolta dell’89 la trova su una posizione contraria perché nega l’identità di milioni di persone e lo fa con mala educacion, senza prestare attenzione ma calpestando sentimenti, idee, discussioni, lasciando nella desolazione generazioni di militanti.
D’altronde, la generazione dei giovani dirigenti è convinta che sia l’Urss sia il comunismo appartengano a una storia che poco o niente li riguarda. Al contrario, sono donne a portare il lutto per la fine del Pci. Quel Partito aveva al centro una idea di trasformazione. Adesso, questa idea è presa in carico da un sesso attento alla qualità delle relazioni, alla cura del vivere. Quanto accade ai nostri giorni lo dimostra.
Note
1) – Di Edmondo Capecelatro e Antonio Carlo, Samonà e Savelli, 1972
2) – Dal titolo di un documento delle Femministe del mercoledì, del maggio 2009 su DeA: https://www.donnealtri.it/2009/05/il-coraggio-di-finire/
3) – Franca Chiaromonte Letizia Paolozzi, Il taglio. Due femministe raccontano la fine del Pci, Datanews 1992.
4) – Ne ragiona il testo Pratica dell’inconscio e movimento delle donne firmato da “Alcune femministe milanesi” del 1974
5) – Rizzoli, 1971
6) – Mazzotta, 1972
7) – Edizioni di Comunità. 1976
8) – Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, 1975
9) – Taci, anzi parla. Diario di una femminista, scritti di Rivolta femminile, 1978. Maria Luisa Boccia li ha riletti con L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, 1990 e con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Ediesse, 2014”.
10)- Al contrario, Più donne che uomini, titolo del romanzo di Ivy Compton-Burnett, nuova edizione Fazi del 2019, è stato usato per il Sottosopra verde del gennaio 1983, la rivista della Libreria delle donne di Milano.
11)- Vedi l’Espresso del 10 aprile 1979.
12)- Vedi l’articolo su Micromega VII, 1990
13)- www.donnealtri.it
14)- Franca Chiaromonte, Fulvia Bandoli, Al lavoro e alla lotta Le parole del Pci, Harpo 2017.
15)- La frase è riportata in C’era una volta la carta delle donne Il Pci, il femminismo e la crisi della politica a cura di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, 2017, Biblink editori.