L’articolo di Letizia Paolozzi “Uomini e donne nella pandemia” che ripropone il tema della cura come interrogativo incompiuto della politica attuale, e che torna anche nelle parole di Zingaretti, mi ha riportato alla mente un mare di emozioni sentite quando ne abbiamo a lungo ragionato a Roma, Reggio Emilia, Milano e in altri luoghi d’Italia.
Il Gruppo del mercoledì nel 2011 aveva pensato e scritto un documento che si intitolava “La cura del vivere”: si era iniziato a discuterne a Torreglia, al seminario di “Identità e differenza”. Quel testo leggeva nella cura che fanno le donne un “resto” che nessun altro progetto sociale era in grado di contenere.
Insieme al piacere della rivoluzione che il Gruppo del mercoledì aveva dato al significato della parola cura – di cui avevo così tanto sentito discutere come fosse un lavoro quasi industriale, nel PCI, PDS e DS a Reggio – mi sono ricordata che sentivo anche un fastidio. Accadde mentre ne discutevamo alla Casa Internazionale delle donne a Roma quando a un certo punto si cominciò a parlare di applicare la cura alla politica istituzionale e al mondo: mi sembrò che mentre lo dicevamo la parola perdesse di senso.
Anche se in qualche modo applicarla al mondo lo ritenevo giusto, c’era però il fatto che già la facevamo noi donne! Ho sentito un fastidio quasi fisico quando lo sentii affermare da una e poi un’altra e forse un’altra ancora e provai confusamente a dirlo facendo perno sul fatto che la parola diventava troppo ripetuta e dilatata.
Non dissi che la sentivo ancora troppo giovane nel suo nuovo senso, è una cosa che ho chiarito dopo molto. Pian piano la cura entrò nel linguaggio pubblico maschile, ma senza nessun riferimento a quel “resto” in-visibile che era stato individuato dal documento del Gruppo del mercoledì nell’agire delle donne, come avviene anche nella dichiarazione di Zingaretti.
Ultimamente mi sono talmente irritata nel sentirla ripetere da pensare che avrei voluto siproibisse di dirla così solo per dirla. Ricordo di aver cercato di capire se anche gli uomini fanno la cura. Non mi convinceva l’ aver sentito dire tante volte che sarebbe bastato condividerla con gli uomini e il problema si sarebbe risolto così come quello del doppio lavoro per noi.
Quel “resto” che rimaneva come lo spiegavamo?
E ancora, se era così semplice, perché in realtà questa condivisione non si realizzava, come anche l’esperienza del lockdown ha dimostrato?
Certo non è sparito il patriarcato e il suo millenario e ottuso potere strutturato contro le donne, ma insomma non avrebbe dovuto essere così difficile se ritenevamo che anche gli uomini avessero questa capacità di cura. Mi chiedevo se anche gli uomini esercitassero e come la cura. Guardavo mio padre, mio zio, mio suocero, mio marito e gli altri che conoscevo: curavano il loro lavoro, e quanto tempo, forza, impegno, pensieri, desideri dedicavano alla sua realizzazione e come si sentivano appagati una volta tornati a casa e quanto desideravano un di più di cura come riconoscimento. Non potevo dire che loro non la sapessero fare. La precisione, l’accuratezza, la convinzione, la ripetizione scientifica con cui vi si dedicavano mi diceva che anche loro la sanno fare. E allora dove sta la differenza tra cura maschile e femminile? E perché continuo a sentire che quel “resto” è solo femminile? C’è forse un curare le cose e uno per le persone?
C’entra un corpo che è in grado di far evolvere un corpo dentro al suo, mentre un altro corpo non è fatto per questo? Di sicuro so che il mio corpo ha avuto un tempo per trasformarsi e anche la mia testa l’ha avuto per capire cosa mi succedeva quando stavo diventando madre. Non so se è così per il corpo di un uomo: il suo non l’aiuta a capire, a usare la testa, come il mio. Un lavoro emotivo feroce forse, ma fondamentale per tutte e tutti.
Alberto Leiss ha parlato di uomini che se ne accorgono: di parlarsi solo tra loro, e di amori tra maschi, sul manifesto. Una lettura interessante e credo urgente da fare, interna al patriarcato, di cui forse si comincia a vedere il bisogno. Se fosse un inizio, come spero, mi auguro porti i maschi più vicino alle donne nel quotidiano, nel pubblico e che si sleghino sempre di più dalle loro idee antiche.
Forse ora è dimostrato anche dalla pandemia che certe teorie non servono tanto alla vita, visto che devono parlare di cura per dimostrare che la loro politica potrebbe essere diversa.
Vorrei che si chiedessero se la loro idea di cura è differente dalla mia, dalla nostra. Non vorrei accontentarmi della mia risposta: che la nostra è radicata sulle persone, sulla vita. Perché ci è dato di ricrearla. Attenderla nove mesi, guardarla negli occhi, nutrirla, temere ogni giorno per lei.La mia paura del male, del dolore, della morte è diversa dalla loro?
È urgente che la cura maschile della politica e delle cose impari ad essere declinata riconoscendo la sapienza delle donne, imparando a riconoscere quel “resto”. E riuscendo a dire se anche nella esperienza di un uomo c’è un diverso “resto” significativo.
Fino ad ora non l’ho visto.