Il Covid-19 ha enfatizzato orientamenti, esasperato indirizzi, reso più vertiginosa la corrente. Nel paesaggio, sono affiorate figure sinora sommerse che da invisibili, indispensabili e dimenticate sono balzate alla luce: colf, braccianti, perlopiù stranieri, autonomi oppure occupati in nero, rider.
Corpi al lavoro senza distinzione di età. Persone spesso con una storia professionale alle spalle ma precipitate nella disoccupazione. Si arrampicano per essere ributtate all’indietro, verso un destino inarrestabile, in una zona senza speranze di tornare alla situazione precedente. O di procedere verso un futuro diverso, migliore.
Emblematica la vicenda del rider Gianni Lanciato che, a Calata Capodichino nella notte del primo dell’anno, viene aggredito a pugni e calci fino a farlo cadere a terra per sottrargli lo scooter. Cinquantenne, “ciclofattorino” tramite piattaforma digitale, un gruppo lo rapina del suo strumento di lavoro, lo scooter SH125.
Il moto di solidarietà per ricomprargli il mezzo di trasporto raggiunge rapidamente i diecimila euro.
I genitori dei rapinatori (tra loro dei sedicenni), cresciuti in un quartiere disastrato di Secondigliano (Rione dei Fiori, chiamato “Terzo Mondo”) pregano: ”Non rovinate i nostri figli, sono ragazzi che lavorano”. Magari guadagnano poco; magari si annoiano; magari, la motivazione della rapina non sono i soldi. Piuttosto il bisogno – che non appartiene solo a chi vive a Secondigliano ma emerge anche dai quartieri borghesi – di esibire il potere attraverso la violenza, decuplicata dai social e dal fatto di praticarla insieme, collettivamente. Tra maschi giovani.
Giovanni Lanciato rappresenta l’altra faccia della medaglia; non giovane, macellaio di professione fino a cinque anni fa, sposato, due figlie, disoccupato, cerca di districarsi mettendosi a consegnare pasti a domicilio. Alla sua età, avrebbe bisogno di un vero posto di lavoro non di un palliativo, di un espediente poco remunerato, subìto in mancanza d’altro.
Per lui e per tanti lavorare e essere povero è una sfortuna doppia giacché, a causa della precarietà, deve adattarsi a forme di sfruttamento, di autosfruttamento fintamente autonomo.
In un interessante articolo l’avvocato giuslavorista Alessandro Paone (sul “Mattino” dell’8 gennaio) affrontava la questione dell’“economia dei lavoretti” (occupazioni temporanee, precarie, per quanto ammantate dalla bella frase: sei imprenditore di te stesso!). Viene incontro a chi, per età, non ha intenzione di “costruire progetti di vita”. Ma chi ha già una famiglia?
In questi anni lo Stato ha generalmente (non sempre) coperto l’assenza di misure sociali e politiche capaci di creare lavoro vero con la distribuzione di sussidi, con la Cassa Integrazione e ora, nell’ emergenza Covid, con il blocco dei licenziamenti: sono in vista altre proroghe. Senza tentare seriamente (il reddito di cittadinanza non ci è riuscito) di produrre e promuovere nuovo lavoro in forme efficaci. Le alternative della gig-economy restano allora gli unici scomodi appigli a disposizione. Dunque, Lanciato e tanti come lui si sono adattati, in ragione della loro precaria condizione, all’autosfruttamento.
Con una condanna difficile da sconfiggere: sei povero e disoccupato? Ebbene, uscirai forse dalla disoccupazione, ma con un lavoro che prima di tutto sarà “rispettoso” della tua povertà, che cioè non ti permette, da “working poor”, di arrivare alla quarta settimana con i soldi che prendi.