Se avete deciso di trascorrere il primo giorno dell’anno optando per un bed-in come John e Yoko, allora sarà bene che portiate con voi il saggio di Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio (Minimum fax, 2020). Già perché Yoko e John facevano politica da quel lettone davanti ai fotografi che li riprendevano, parlavano di pace e di amore come si faceva in quei tempi d’oro in cui sognare e desiderare erano attività che impegnavano anche i corpi.
Nella mia visione è da qui che Cuter, filosofa, dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg, editor della rivista online Il Tascabile, si avventura in un esame dei rapporti di genere negli ultimi trent’anni che definisce sin dal principio come il simbolo di una guerra sociale. E divide le sue riflessioni in quattro scenari ampi e interrelati: come è nata l’idea di un femminile costruita dallo sguardo maschile; la femminilizzazione del nostro immaginario; il potere dell’attrazione, che l’autrice chiama soft power o capitale erotico. Infine il sex symbol, ovvero essere chiamate in causa in quanto donne. Il primo esempio, solo apparentemente eccentrico, è la costruzione del personaggio di Ambra Angiolini costruito da Gianni Boncompagni, genio radiofonico e televisivo, al debutto del programma Non è la Rai. Ambra ha un auricolare nell’orecchio e parla con le parole del suo burattinaio, in una piscina insieme a tante altre giovanissime. Un simbolo di quello che poi diventerà il modello dell’intrattenimento pomeridiano delle tv generaliste nel corso degli anni Novanta fino ad oggi. Cos’è che spinge un artista noto a nascondersi dietro il corpo di una ragazza? Un precursore del transito dalla figura della valletta a quella della giovane in primo piano, al processo più ampio della femminilizzazione del potere, dietro il quale molti uomini anche oggi si nascondono.
Una storia che il saggio ripercorre seguendo il filo rosso del passaggio dal capitalismo – le donne come esercito di riserva nelle fabbriche – al post capitalismo e al mondo dei servizi, nel quale le donne – una per tutte la figura dell’impiegata – che devono produrre e allo stesso tempo consumare, precipitano in quell’obbligo della catena produzione-autonomia individuale-obbligo della cura. Cosa è accaduto, si chiede più volte Cuter ? Che il sogno de “Il personale è politico” non ha funzionato, perché invece di portare il primo fuori dalla casa nei luoghi della produzione, è stato il capitale a entrare in casa (e nel primo anno dell’era COVID ciò è divenuto ulteriormente manifesto), “la produzione entra in casa”, così lo smart working leggi ancora casa, diventano “nuovo centro di produzione, consumo e controllo politico. E la vendita di se stessi come offerta di prestazione viene quasi esclusivamente legata a quella sessuale, confondendola con la vendita del corpo. E persino la produzione sessuale diventa addomesticata, ne è esempio l’evoluzione della rivista Playboy, dove con il tempo il creatore Hugh Hefner ha trasformato il simbolo della sua azienda da un cervo a una coniglietta. In questo simbolo si riflette il fenomeno della femminilizzazione del maschile: non c’è più un animale cacciatore, al suo posto una bestiola notoriamente avida di copule e riproduttività seriali. La mascolinità tossica di cui parla Žižek, quella che noi maschi ha eradicato le emozioni e enfatizzato l’assenza del bisogno di chiedere aiuto. Una infantilizzazione dice Cuter, che vede agli estremi gli hikikomori, dall’altro le deposizioni del produttore Weinstein, che invitava le attrici nella sua camera d’albergo, pietendo massaggi per alleviare le sue sofferenze, piuttosto che rappresentarsi come maschio assalitore. Le ragazze mostrate dal gruppo Tiqqun nel 1999 (Elementi per una teoria della Jeune-Fille) mostrano come esse siano la fusione tra vita privata e lavoro, le regine del multitasking, del lavoro immateriale, come conseguenza del neoliberismo: “La mediazione è scomparsa al punto tale che non abbiamo più neanche bisogno di un padrone a cui vendere la nostra forza lavoro (…). Stiamo sempre lavorando”.
E dunque arriviamo al femminismo. Se non vi è alcun dubbio che la battaglia contro la violenza alle donne non deve avere fine, la rappresentazione della stessa violenza non è la vittoria del femminile, quanto piuttosto “la vittoria dello spettacolo”: le vittime incappucciate di Handmaid’s Tale non renderebbero un buon servizio perché portano inevitabilmente all’esclusiva identificazione con la vittima e sottraggono le donne alla rappresentazione del potere. Non si vince una battaglia mostrando il sangue mestruale in un uno spot in tv, ma vedendo meno tv, sostiene l’autrice. Il cui racconto si rende infine in prima persona: lei – scrive – non è figlia dell’ordine simbolico della madre teorizzato da Luisa Muraro, ma prodotto delle sue caratteristiche di genere date alla nascita, dalle esperienze fatte, dagli amori vissuti, dal sesso che l’ha resa la donna di oggi. Perché nella sessualità c’è una sana conflittualità che origina dal desiderio, che produce “conflitto, ascolto, apertura”, e non quello che oggi è sotto i nostri occhi, ovvero la questione morale come condanna esagerato e la reiterazione del binarismo sessuale. È la strada che suggerisce la riapertura verso una politica che affonda le radici nel marxismo, e il fatto che il femminismo travalichi le “determinazioni di classe” in nome della sorellanza, “rende difficile la costruzione di alleanze politiche e sociali tra movimento femminista e dei lavoratori non rende nemmeno un buon sevizio al movimento femminista stesso e alla sua capacità di trasformare la realtà (scusate la notazione personale, ma qui quoto). Pensare solo in termini personali, fare solo quello che ci va non è la soluzione e non lascia spazio alla solidarietà e alla gratuità. Lo è invece “scommettere su un interesse personale che non si contraddica con quello comune”.
Cuter indica come suo questo modo di intendere il femminismo. Sicuramente provocatorio, ricco di spunti (tra cui la biblio saggistica, narrativa e filmica), Ripartire dal desiderio offre riflessioni su cui sarebbe utile tornare a discutere, nella dimensione personale come in quella politica.
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