Poi una dice che non vogliamo essere considerate delle vittime ma c’è qui una fragilità che stringe il cuore. A me dispiace perché, in questa storia della maestra d’asilo ad andarci di mezzo è, come spesso avviene, un essere sessuato al femminile. Che viene spinta a dimettersi dalla direttrice della scuola (sotto processo per diffamazione: pare abbia sottoposto la maestra a una specie di “gogna” di fronte alle sue colleghe: come sia potuto accadere non riesco a capirlo e non so quali motivazioni abbia addotto), maltrattata dalla comunità, presa in giro e senza lavoro.
Molto in sintesi la storia riguarda una ragazza della provincia di Torino che si è innamorata e ha riposto male, come diceva la mia mamma, la sua fiducia.
Manda – sarà una prova d’amore? – al fidanzato (adesso lui l’ha risarcita ed è stato condannato a un anno di lavori socialmente utili) foto non proprio da educanda scattate da uno smartphone e video hard; lui, dopo la fine del rapporto, se le ritrova e invece di cancellarle cosa fa? le riproduce sulla chat dei compagni di calcetto.
Un padre che non so in quale posizione giochi nella squadra, le passa alla madre di un alunno della maestra d’asilo. Oh cielo! è l’insegnante. Costernazione e scandalo. Con quel che segue. La direttrice della scuola spinge la ragazza alle dimissioni.
Ciò che mi fa cadere le braccia è la fiducia della maestra nel mezzo usato. Non siamo ai bei tempi della “lettera d’amore” che tanto desiderava Molly Bloom. Ora, anzi, da tempo, il mezzo è il messaggio. Sembra averlo dimenticato Massimo Gramellini (sul Corriere della Sera del 20 novembre) che pure frequenta assiduamente la televisione e che difende, giustamente, la ragazza. La quale ha deciso di reagire e denunciare, pagando però un prezzo alto.
Nessun moralismo su ciò che si decide di fare nel gioco sessuale, sulle fantasie che si intende suscitare, ma le foto di quel gioco così come gli infiniti video che ci arrivano ogni giorno su Conte, Trump, Putin, uccellini e uccellacci, sono replicabili.
Sicché, qualsiasi sia l’immagine, a un ragazzotto per vanteria, per qualche scherzo salace, per ripicca, può venire in mente di farla circolare. Di riprodurla.
Se consegni delle immagini del tuo corpo, non sarà il primo né l’ultimo che decide di diffonderle. Ammesso che la maestra di asilo si fidi del destinatario delle foto, che non ricordi i casi in cui c’è un uso violento della sessualità, del corpo, dell’amore femminile (conosciamo i nomi delle ragazze – Tiziana, per esempio- che si sono uccise perché la memoria dei telefoni è indelebile) lasciare che sia uno strumento tecnologico nelle sue infinite possibilità a fare da emissario amoroso, è un po’ come assumersi i rischi di un viaggio nel deserto da sola.
Insomma, qualche precauzione non guasterebbe.
Altra questione, la nudità. Vero è che contro “il comune senso del pudore” una cinquantina d’anni fa ci fu una grossa battaglia. Cambiavano le donne e cambiava il rapporto tra i sessi. Adesso il messaggio è diventato l’esibizione del corpo femminile (anche maschile) come oggetto di desiderio. Nell’immaterialità dei pixel. Roba che ha poco a che fare con la libertà e molto con il consumo, e alla fine non è un guadagno per le donne (per qualcuna sì, evidentemente).
Oggi, in tempo di Covid-19, la tentazione di affidarsi al device aumenta? Usare la tecnologia è l’unica possibilità che abbiamo di rispettare il contenimento, il distanziamento fisico senza ammutolirci del tutto: una forma di autoresponsabilità. Ma con questo procedere così immateriale, così esteso dallo smart working alla Dad, ti rimane il dubbio se non hai rinunciato – per forza di cose – alla sostanza delle relazioni.