Pubblicato sul manifesto il 27 ottobre 2020 –
L’arrivo, tanto previsto quando non adeguatamente prevenuto, della “seconda ondata” del virus ci fa come ricominciare tutto da capo. Ma alla sorpresa, alla paura e alla buona volontà di collaborare, sembra sostituirsi un senso di stanchezza, di irritazione e di vera e propria rabbia.
Le parole di chi decide, da Palazzo Chigi ai cosiddetti “governatori”, suonano più false e retoriche, quando non irresponsabili (viene in mente De Luca che agita in tv l’immagine di un corpo malato).
Vorremmo sentirci dire con chiarezza perché alcune cose evidenti non sono state affrontate con efficacia (trasporto pubblico, medicina di base, terapie intensive, tamponi ecc.) e perché ora si decidono – probabilmente in ritardo – divieti non tutti accettabili (come chiudere cinema e teatri, già “disciplinati” contro i contagi: “L’impoverimento della mente e dello spirito è pericoloso – ha scritto ieri Riccardo Muti sul Corriere della sera – e nuoce anche alla salute del corpo…”).
Volano da parte istituzionale parole grosse contro gli episodi di protesta con anche alcuni atti di violenza. Ma alzare la voce e bollare il tutto come estremismo teppista e criminaloide non aiuta la ricerca di un confronto civile, ma vero.
Si potrebbe pensare che alla fine non andrà affatto “tutto bene”.
Forse sfugge in tanti discorsi che per uscire dalla pandemia verso condizioni davvero migliori è necessario un cambiamento molto radicale, difficile e globale. Qualcosa che intanto dobbiamo essere in grado di pensare, immaginare. E anche, almeno in qualche misura, cominciare a praticare.
Forse ci sono segnali che vanno in questa direzione. Come la “convergenza” tra un vasto numero di associazioni, attivisti e attiviste critiche verso il modello capitalistico (e ancor prima patriarcale) che cercano di elaborare l’idea di una “società della cura”. Un po’ paradossalmente nel “manifesto” che questo percorso finora ha prodotto, troppo poco si riflette – mi pare – sul significato nuovo da dare al termine “cura”, sulla ricerca soprattutto femminista che ne ha ripreso e capovolto il senso, e sul fatto che la realtà che riassume questa parola è intimamente connessa allo stato delle relazioni tra uomini e donne, che non sono particolarmente “pacifiche” in questo momento, come anche l’emergenza Covid ha evidenziato.
Ma si tratta di un “cantiere”, insieme a altri, da considerare in costruzione.
Con gli amici di maschile plurale abbiamo in questi mesi immaginato di mettere al centro di un confronto pubblico proprio che cosa abbiamo capito, e che cosa desideriamo cambiare – e già stiamo provando a cambiare – nelle relazioni tra uomini e donne, e con le persone di diverso orientamento sessuale, a partire dall’esperienza dell’imprevisto prodotto dal virus. Sta qui, in queste relazioni, la radice che determina non solo la dimensione “privata” di ognuno/a ma anche il senso della costruzione sociale, economica, politica, istituzionale.
Un testo intitolato “Uomini e donne: da dove ripartire? Dalla retorica della “guerra al virus” al riconoscimento della vulnerabilità e della centralità della cura” (leggibile sul sito maschileplurale.it) invita a una discussione che avrà un primo momento di scambio il prossimo 8 novembre: si sperava in un incontro anche in presenza, ma sarà necessariamente solo in rete.
Tra i temi proposti: Il clima delle relazioni tra i sessi nella crisi; il corpo e i desideri maschili tra libertà, colonizzazione e consumo; i linguaggi e le forme della violenza: nella politica, nei media, in casa e nella vita quotidiana; l’impegno di cura e il desiderio di nuove paternità.
Ma il confronto è del tutto aperto a altri argomenti e contributi.