Pubblicato sul manifesto il 13 ottobre 2020 –
Negli ultimi tempi, diciamo qualche anno, siamo stati sommersi dal riprodursi della parola “resilienza”, prima quasi sconosciuta nel linguaggio corrente. Ora il termine, che trabocca quotidianamente nei resoconti mediatici, oltre che animare convegni e seminari, è stata assunta anche nella koinè burocratica dell’Europa Unita.
Da atteggiamento psicologico individuale o riferito a gruppi e comunità particolari è assurto a segno distintivo di programmi governativi che dovrebbero godere di ingenti finanziamenti pubblici.
Ma da dove viene e che cosa vuol dire questa ormai ingombrante parola?
Ve lo sarete già chiesto altre volte, facendo le stesse ricerche on-line. Resistere e reagire alle avversità del destino, ai colpi bassi del vivere, incidenti, malattie, crisi economiche, pandemiche, delusioni amorose e altri guai. Come spesso accade il termine viene dal latino, si assesta nel linguaggio tecno-scientifico (la resilienza dei materiali parla di come assorbono traumi energetici, deformadosi o meno, e come restituiscono energia) alberga nell’inglese globale, e ritorna a noi.
Dunque come rispordiamo con energia al male (più o meno).
Nella storia della parola c’è però un’insidia. Il latino re-silire vuol dire infatti rimbalzare, saltare indietro. Arretrare. In Italiano non sopravvive un verbo, ma nel francese resilier – leggo sul sito della Crusca – prevale proprio questo “ritirarsi’, ‘rinunciare’, ‘contrarsi’. Ecco il sospetto che nel consapevole inconscio del potere, accentrato e diffuso, piaccia in realtà questa ombra oscura del concetto. Reagisco sì ai colpi che ricevo, ma ritirandomi, facendomi piccino e probabilmente mansueto.
Sospetto che diventa quasi certezza quando il discorso di alcuni uomini politici si compiace di ripetere un paragrafo sì e uno no, nei tweet o nei post su facebook l’onnipresente semantema.
Per esempio il premier Conte. Ha reintrodotto nel lessico politico nientemeno che il termine “rivoluzione”, a proposito del “clamoroso” decreto sulla “semplificazione”. Per il momento, però, le cose sembrano complicarsi, e molto. Code notturne per fare il tampone, momenti di caos che si riproducono nei pronto soccorso di vari ospedali, in Campania e non solo.
Ma non era tutto previsto da mesi?
Ecco allora che la parola d’ordine del governo e del suo capo diventa una – responsabile naturalmente – resilienza. Si tratta di reagire in modo positivo non solo all’aggressione del virus, ma – altro significato leggermente inconscio – alla girandola quotidiana dei divieti e delle raccomandazioni, più o meno soggette a costosa ammenda.
Come l’ukaze del capo della polizia Gabrielli. Manifestate se proprio volete, ma in modalità “statiche”! Altrimenti rischiate la multa e l’arresto. Dopo il metro “statico” tra i banchi di scuola, con o senza rotelle, ecco la surreale immagine dei cortei “statici”.
Facile ironizzare, meno distinguere cosa pragmaticamente accettare e cosa respingere senza arretrare.
Ciò che sta diventando insopportabile è questo concentrarsi sulle “responsabilità individuali” nella reazione alla pandemia. Certo, resilientemente indosso la mascherina, mi lavo le mani, non vado alla movida e non mi assembro (per fortuna non sono un pendolare obbligato a prendere il metrò). Ma che cosa posso fare per aumentare i tamponi, le terapie intensive, la distribuzione dei vaccini, il tutto magari secondo procedure, tempi e prezzi che non differiscano ridicolmente, e drammaticamente, da Regione a Regione? Perché non ce la raccontano tutta?
Quindi se mi assesto in retroguardia è per meglio movimentare il pensiero. E alla resilienza statica dico: no, grazie. Grazie no!…grazie.