DOGTOOTH – Film di Yorgos Lanthimos. Con Christos Stergioglou, Michele Valley, Angeliki Papoulia, Mary Tsoni, Hristos Passalis, Grecia 2009. Fotografia di Thimios Bakatatakis –
Esce solo adesso, dopo undici anni, il terzo film del regista greco Yorgos Lanthimos – dal titolo “Kynodontas” in originale – che è stato vittorioso nella sezione Un Certain Regard di Cannes 62 e candidato agli Oscar 2010 nella categoria del miglior film straniero.
L’inquietante trama – come del resto tutte quelle dei suoi film – mostra una famiglia che vive isolata in una villa con giardino e piscina, senza avere nessun rapporto con l’esterno. Solo il padre-padrone (Christos Stergioglou) ha un lavoro dirigenziale in fabbrica, dove si reca quotidianamente in automobile, mentre a nessuno dei membri della famiglia è consentito di uscire dalla casa. Un’alta recinzione di legno oscura perfino la vista del “fuori”.
La moglie (Michele Valley), ha un telefono staccato, nascosto nel comodino che usa raramente solo per comunicare con il marito quando è in ufficio, senza farsi notare dai figli. Le due figlie femmine (Angeliki Papoulia e Mary Tsoni) e un figlio maschio (Hristos Passalis), vivono in un mondo demiurgicamente sorvegliato, pieno di regole assurde, istigati alla competitività attraverso il gioco: «facciamo che vince chi resiste per ultimo a …».
Solo al pater familias è successo che uno dei due denti canini sia caduto e poi ricresciuto: questo è il segnale palese della capacità ad affrontare il mondo esterno. Così gestisce totalmente le vite dei membri della sua famiglia. Introduce perfino, a giorni fissi, una sorta di partner prezzolata per il figlio – una sua impiegata alla sicurezza – in una delle scene di sesso più goffe della storia del cinema.
Ma il mondo “interno”, cioè quello familiare, sotto una parvenza di buone maniere, di ubbidienza e di rapporti ludici, è un mondo altrettanto spietato, autarchico, super controllato dove solo la maggiore delle due figlie (Angeliki Papoulia) riuscirà poco a poco a ribellarsi.
I gatti sono considerati gli animali più pericolosi del mondo, al contrario i cani sono ben accetti ma vanno addestrati a diventare così come li vogliamo. In effetti il rigido addestramento che lui mette in atto nei confronti dei figli assomiglia molto all’addestramento dei cani. Li esercita a difendersi, li allena alla sopravvivenza e a resistere sott’acqua senza respirare, li abitua a non mostrare emozioni e ad essere competitivi. Si inventa gare assurde i cui premi sono degli adesivi da collezione. Lo sguardo del padre è quello di un dio, o meglio, di uno scienziato megalomane onnisciente, distaccato e freddo, al limite del patologico.
La famiglia, in tal modo, vive una sorta di esistenza illusoria, specialmente i ragazzi che sviluppano attitudini da animali domestici, e hanno un linguaggio distorto. Anche questo, infatti, viene stravolto e alcune parole acquistano un diverso significato: il mare è il divano su cui ci si siede, gli zombi sono dei fiorellini gialli, la fica è una lampada.
Il gusto del paradosso e del grottesco sono tutti elementi del linguaggio di Lanthimos già presenti nei suoi primi film. Così sarà per “The Lobster” del 2015, per “Il sacrificio del cervo sacro” del 2017 e anche per “La favorita” del 2018. ”Dogtooth” è un film strano, una pellicola con dettagli talvolta raccapriccianti di gusto decisamente surrealista, in linea con il cinema “stralunato” del regista greco che, secondo molti critici, si ispira ad Haneke per raggiungere le vette di estraniazione, concedendosi qua e là composizioni e atmosfere kubrickiane.
La scena più beffarda di tutto il film, a mio avviso, è quando il padre mette il disco LP con inciso la voce del nonno che canta, e altro non è che Fly me to the moon, la famosa canzone cantata da Frank Sinatra, che il padre traduce liberamente dall’inglese travisandone del tutto il senso e creando una poesiola infantile e gratificante.
Il ricordo della “dittatura dei colonnelli” terminata nel 1974 – un anno dopo la nascita di Yorgos Lanthimos – sembra aver ispirato il regista. Gli è rimasto vivo l’orrore dell’esercizio del potere come uno spauracchio così da disegnarne, in questo film, una metafora.