Tre donne (Livia Turco, Maura Cossutta, Cecilia D’Elia) hanno parlato in questi giorni da luoghi differenti. Nonostante molto di ciò che dicono mi sia apparso condivisibile, c’è un punto nei loro discorsi che non mi convince.
Cerco di spiegarmi. Queste donne hanno biografie legate alla sinistra. Rispettano le istituzioni e lì si sono sperimentate mentre con il femminismo hanno firmato un patto di lealtà. Ai miei occhi sono tre amiche. Con Livia Turco, ex parlamentare, ex ministra, mi sono azzuffata e rappacificata. A partire dalla bella impresa della Carta delle donne. Quanto a Maura Cossutta, mi ha reso felice che sia diventata presidente della Casa Internazionale delle donne. Cecilia d’Elia, più giovane eppure amministratrice sapiente, ora portavoce nazionale della Conferenza delle donne democratiche, potrebbe rappresentare una scelta innovativa come sindaca di Roma.
Dunque, le tre hanno ragione a riflettere sul fondamentale ruolo femminile nei giorni del Covid-19. Donne a casa per mandare avanti la famiglia, per seguire i figli davanti al computer, per svolgere un lavoro non tanto “smart”. Donne che ci hanno nutrito alla cassa dei supermercati e curato negli ospedali.
Eppure, questo ruolo molto evocato, esaltato, benedetto, poco viene riconosciuto. O ricompensato. Pesa la minaccia di tornare indietro; regredire dall’autonomia; perdere in libertà. Per la società, non solo per le donne, non è una buona cosa.
Si propongono soluzioni. Bisogna ribaltare il segno della crisi. Come? “Con una rete più forte tra noi” dove “Noi è un progetto” (Cecilia D’Elia).
“Dobbiamo costruire un’onda d’urto che decida l’agenda politica e di governo… dobbiamo ritrovare la bellezza del noi” (Livia Turco).
È necessario costruire insieme un percorso di “unità e non unanimismo, unità e differenze, unità e responsabilità di ognuna e di tutte” (Maura Cossutta e l’Assemblea della Casa Internazionale delle donne).
Sarà efficace questo riferimento al “noi”? E se rappresentasse non soltanto un coinvolgimento, una condivisione ma un velo sugli ostacoli, un modo di evitare il mutamento in nome della coesione sociale, o meglio, della “coesione sessuale”? Il mio timore è quello di un “noi” che occulta il conflitto.
Il Covid-19 ha funzionato da lente d’ingrandimento della vulnerabilità dei corpi, della salute e della malattia; ha infragilito il contratto sociale, evidenziato il profilo degli esclusi, degli invisibili, di quanti sono “fuori”.
Le donne possono usare questa lente d’ingrandimento ma un conto è convergere, pur da un orientamento politico diverso su alcuni obiettivi – allora occorre intendersi su quali (ne parlano su Io Donna Mara Carfagna, di Forza Italia, e Valeria Valente, del Pd) – un altro ipostatizzare, rappresentare un “noi” femminile come progetto.
La pandemia ci costringe a una presa diretta della realtà. A scegliere tra questioni stringenti: ruolo della scuola come conoscenza, socializzazione? Cura dell’ambiente, degli edifici fatiscenti, dell’aria che respiriamo? Attenzione agli stili di vita, ai legami?
Siamo immerse – almeno io penso – in un tempo di cambiamento. Il passato non è riproducibile. L’antica idea dell’unità incontrerebbe nuovi, insormontabili ostacoli. Le donne, attive nelle città, stanno dimostrando in questi mesi la loro preoccupazione per la concretezza. “Dall’io al noi, dal noi all’io” è il titolo del documento femminista sulla necessità di una rete di relazioni con l’altra, gli altri. Ne discuteremo lunedì 13 alla Casa Internazionale delle donne di Roma.
Invece, degli altri, degli uomini, in questo discorso sul “noi” esistono deboli tracce. Eppure basta guardare al governo giallo rosso e seguirli negli Stati generali, nelle task force, nell’occupazione della scena pubblica per trarne un giudizio. Sarà un sette più o un quattro meno?
Peraltro, gli uomini disputano, si danno battaglia; e il “noi” femminile da che parte si mette?
Anche tra donne è esplosa una intensa discussione (alla quale forse non giova la moltiplicazione degli appelli e dei rigidi schieramenti, tipo falangi contrapposte) sulla valutazione del Ddl in lotta con la “omo/lesbo/bi/trans/fobia”.
Il Ddl, primo firmatario del testo unificato Alessandro Zan, intende colpire violenze e discriminazioni basate “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.
Tuttavia, già il termine “omo/lesbo/bi/trans/fobia” non è proprio il massimo. Le leggi andrebbero scritte in modo semplice per aiutare l’occhio ad accettare comportamenti, scelte che prima venivano respinti. Insomma, dovrebbero produrre un’opera pedagogica. Al contrario, questo Ddl fa esplodere una diatriba tra opposti vittimismi con un risultato disastroso. Peraltro, la differenza sessuale diventa una gabbia biologica e la misoginia, l’odio contro le donne, si annacqua nella sua peculiarità.
Eppure, Monica Cirinnà sostiene che “c’è un filo rosso che lega la violenza di matrice omotransfobica alle violenze di genere”. Non è vero. Oppure, potrebbe essere vero in senso molto più generale: se un filo rosso collega la violenza maschile – chiamarla con il suo nome, no? – contro le donne anche alle violenze belliche, a quelle contro i detenuti, la natura e l’ambiente.
Infine, coltivo un dubbio di fondo: questo tipo di leggi, a cominciare dalla Mancino, che rimandano alla libertà di opinione e rischiano di intromettersi in quello che penso, forse non andrebbero varate. Generano confusione e una casistica infernale. Ma soprattutto ho una certezza: sulla sessualità bisogna pensare e agire con una sensibilità che non tutti i legislatori possiedono.