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Sicuramente, la catastrofe – avete suggerito che si tratti di un “diluvio universale” – provoca ghettizzazione, moltiplicazione delle diseguaglianze. In un mondo avvilito dalla natura matrigna e dalla mano degli uomini (che fuori non si possono chiamare), bisogna trovare risposte adeguate.
Di fronte a uno scenario inedito, voi parlate di “uno stock di progetti”. Significa saper ascoltare, essere in grado di coinvolgere affinché sia la società a trarre vantaggi dal lavoro, dalla creatività di tanti.
Sarà in grado il governo giallo-verde di mettere a frutto, indurre a cooperare nuove energie intellettuali (magari con un intervento dello Stato che non ricada nel vecchio statalismo)? Ci piacerebbe, soprattutto adesso che in Europa alcuni paesi – non tutti, non i “frugali” – pare abbiano rinunciato alla tirannia del debito. Tuttavia, a voi tre che offrite “Una proposta radicale” noi abbiamo da porre una domanda: in questo momento è necessario o no forzare un ordine; ribaltare l’agenda delle priorità; mettere in questione paradigmi consolidati?
Se sì, il grimaldello utile ci appare quello della non separazione tra produzione e riproduzione; tra economia che poggia sullo scambio ed economia che cura la vita, che funziona da “protezione” (Naomi Klein) del vivere. La prima la conosciamo; la seconda viene misconosciuta. Eppure, sta sotto gli occhi di tutti, come “la lettera rubata” di Poe. Ne calcolano persino l’ammontare in termini di Pil.
C’è un soggetto che va nominato perché questa “non separazione” la pratica. E spesso ne paga le conseguenze. Ci riferiamo alle donne, alla necessità che in questo Paese ci si accorga della loro esistenza: ne hanno scritto (sul “Corriere della Sera” del 9 maggio scorso) Maurizio Ferrera e Barbara Stefanelli invitando a non chiamarla “questione femminile” ma a puntare su “un modello innovativo che bilanci efficacia ed equità”.
Ora, tenere insieme produzione e riproduzione è una scommessa affrontata, sezionata, capovolta dal femminismo ma riguarda tutti e tutte. E’ un lavoro che abbraccia momenti diversi del divenire, una cura di sé e degli altri, un’attenzione all’ambiente e alle relazioni. Meglio, la cura come postura relazionale. Certo, un campo vasto: entrarci comporta toccare uno schema consolidato; una riflessione sui tempi, sul cosa e come si produce; sui vantaggi possibili se non fosse un solo sesso a praticarla. Per questo, perché andrebbe a rompere equilibri consolidati, a rovesciare piccoli e grandi feudi di potere, la cura viene sotterrata nel silenzio. Tanto che noi due ci interroghiamo se non si tratti addirittura di una questione maschile per cui la cura non suscita discussione o rifiuto; partecipazione o ripulsa. Semplicemente, non ha valore in quanto ancora significa destino, abnegazione, dedizione, rinuncia: appaltata alle donne, esercitata dal sesso femminile.
Eppure, mai come in questo periodo in cui vanno riviste le forme di vita, sarebbe necessario riprendere il discorso sulla cura tra i progetti da non trascurare (assieme al ripensamento sulla riforma del Titolo V della Costituzione che, affidato alle Regioni e Province, ha mostrato profonde crepe nel sistema sanitario o all’insostenibilità della burocrazia che avvolge l’Italia nella sua rete). Noi vogliamo scommetterci proprio mentre i partiti progressisti, i sindacati paiono presi da altri problemi.