Quatt’ e’ maggio, quattro di maggio: a Napoli siamo soliti dire così quando vediamo intorno a noi una gran confusione, un’amica che per il week end prepara un baule di abiti, una casa in occasionale o perpetuo disordine. Un detto che rimanda a tradizione antica: Camillo Albanese, in Storie della città di Napoli (Newton Compton 2017), scrive che il primo a fissare la norma nel 1587 fu il viceré Juan de Zunica conte di Morales, che stabilì al primo di maggio la data dei traslochi. Ma il primo maggio era la festa dei santi Filippo e Giacomo, così il viceré Pedro Fernandez de Castro, conte di Lemos, nel 1611 fissò la data del 4 maggio. Entro le ore 18 di quella data un inquilino doveva uscire e un altro subentrare. “In quell’ora lo scompiglio e il disordine regnavano ovunque; un tal don Ranunzio era già nel cortile della nuova casa con i suoi undici figli. […] Di sopra c’era ancora l’inquilino uscente, don Rosario”. Durante il quattro maggio Napoli pullulava di carrette trainate da asini, buoi e cavalli”.
Il mio quatt’ ‘e maggio ha anche ricordi personali: è stato per lunghissimi anni la data del mio onomastico fino a quando con mio grande disappunto di ragazzina, la data venne spostata al 17 agosto, decisione che per me aveva il sapore simile al mistero della santissima trinità. Fino ad allora nonna e zie attribuivano all’onomastico una rilevanza maggiore del compleanno: insieme alla congiunta/o si celebrava anche il santo. Ma quello spostamento di data nel calendario gregoriano fece scivolare nell’ombra anche gli auguri a me dedicati.
Numerosi i quatt’ ‘e maggio della mia vita: da città a città, paese a paese, casa e casa; uno – poche carabattole in verità – nel cuore del Punjab pakistano su un carretto trainato da un cammello, quasi presepiale. Anche ‘O quatt’ ‘e maggio di oggi dovrebbe portare con sé e per me il sapore del cambiamento: ho speso due mesi in quarantena solitaria, coperta di silenzio, perdendo il filo dei giorno, del sonno, dei sogni. Doverosa, rammentavo a me stessa che nessuno tra coloro che mi sono care/i si è nemmeno ammalato; forse il mio Io ha subito i colpi del virus: troppi pensieri, nessun pensiero, troppa agitazione, tanta abulia, il dolore a una spalla che non mi abbandonava, l’ostinazione sorda della cura. Qualche compito però l’ho fatto: mi sono guardata dentro (non avrei potuto farlo fuori…), ho filtrato le emozioni, gli amori, usato una nuova bilancia per capire chi/cosa fosse davvero importante per me. Chi mi ha sopportato e ascoltato davanti a un oceano di pixel e chi sofferente si è sottratto ai sentimenti: è probabilmente normale di fronte a una pandemia reagire come gli altri non prevedano che tu faccia, lo è altrettanto valutare quel prima perché quando si aprirà la porta del dopo, cioè oggi, saprò scegliere chi abbracciare.
Presto mi sposterò di nuovo e poi ritornerò dove sono ora, è la vita che ho scelto, così come in questi giorni pianifico simbolicamente e non solo spostamenti di oggetti, mobili e cuori. Sensazioni che potrò verificare traslocando l’anima nella prima persona che potrò stringere forte.
Sul carretto di questo quatt’ ‘e maggio porto con me una sporta ampia e leggera: due gatti impauriti appena adottati, due figli lontani che non potrò ancora a lungo rivedere, la foto di una nipotina arrivata da pochi mesi, il pensiero del mio papà rimasto a casa su una sedia a rotelle senza che un solo giorno sia sia lamentato del mancato giro mattutino davanti al suo mare; il fagiano che ha attraversato la strada del mare e fermato la mia bicicletta e tutte/i coloro che non si sono mai allontanati da me mantenendo la discrezione del cuore. E saranno più lievi solo quegli amori che grazie alla loro leggerezza, sono riusciti a passare attraverso il setaccio delle reciproche solitudini.
Questo articolo è apparso sul blog Olimpiabineschi.it, amoriricordispostamenti