Credo che sia inutile dire che la cosa che mi è mancata di più in questi ultimi due mesi è stato il cinema. L’ultimo giorno possibile, all’inizio di marzo, sarei dovuta andare al Cinema Farnese a vedere un docu-film su Leonard Cohen negli anni ’60, ma la mia compagna di cinema era perplessa all’idea di inserirsi in un posto chiuso senza circolazione d’aria.
E fu lockdown. Purtroppo la previsione di riapertura delle sale cinematografiche è molto lontana e non so quante di esse riusciranno a sopravvivere dopo tutti questi mesi di chiusura, specialmente quelle più piccole del genere cinema d’essai.
Così, costretta a casa ho ceduto anch’io: mi sono abbonata a Netflix. Sono stata sommersa da raccomandazioni di amiche e amici su quali serie devo assolutamente seguire, ma io, dal primo giorno, ho iniziato a vedere “The Crown” e non sono riuscita più a staccarmene. Il meccanismo della dipendenza, con la disponibilità di 4 su 5 stagioni tutte lì a portata di mano è una grande tentazione, specialmente per noi spettatori compulsivi. Sono riuscita a divorarne già tre stagioni complete in pochissimi giorni.
Questa serie televisiva – britannica e statunitense – è ideata da Peter Morgan, tratta dalla sua commedia teatrale “The Audience“ del 2013. La vicenda è incentrata sul lungo regno della amata regina Elisabetta II dal 1947 ad oggi (inizialmente dovevano essere sei stagioni di 10 episodi ognuna). L’idea era di sostituire gli attori ogni due stagioni e perfino i responsabili delle composizioni musicali cambiano ogni stagione, anche se il tema principale rimane quello di Hans Zimmer.
Così nel novembre del 2014 la Sony Pictures Television ha iniziato le riprese e sembra che The Crown sia la serie televisiva più costosa di sempre, con un budget stimato di 130 milioni di dollari a stagione.
Gli attori – che sono tantissimi e non si possono citare qui -sono o per la maggior parte britannici di teatro, oppure ottimi attori cinematografici che hanno già vinto premi come, ad esempio, la Olivia Colman (Oscar 2018 come migliore attrice in “La Favorita”) che interpreta la Regina adulta nella terza e quarta stagione, o l’attrice Claire Foy che, per la sua interpretazione di Elisabetta II giovane, ha vinto il Golden Globe e un Screen Actor Guild Award.
Ciò che trovo avvincente della serie è che ogni episodio ha i suoi margini di autonomia così che potrebbe essere un film nel film. Di volta in volta viene trattato un tema diverso, o un personaggio differente, o un particolare rapporto fra due dei membri reali o due personaggi secondari. Intanto il tempo passa è gli episodi sono scanditi da fatti reali che sono scolpiti nella nostra memoria: lo scandalo Profumo, l’assassinio di Kennedy, lo sbarco sulla luna.
Le ricostruzioni degli ambienti naturali e degli spazi nobiliari sono ineccepibili, così come grandiosi sono i costumi e il trucco. Sembra incredibile l’aver scavato così tanto nelle personalità della famiglia reale riportando storie, passioni, sofferenze individuali. Uno fra tutti che mi ha colpito molto è il principe Filippo che lo si segue vedendolo crescere e accettare man mano la sua condizione di eterno secondo, di principe consorte. Ha avuto un’infanzia tempestosa, ha sofferto abbandoni, malattie e altro e, da giovane impulsivo e innamorato, diventa pian piano, giudizioso e ironico, un sicuro appoggio per la Regina.
L’altro elemento che emerge è la continuità della Corona versus la discontinuità dei tempi che cambiano. La Regina, per il ruolo conservatore che ricopre, è sempre un passo indietro nei confronti del progresso. Si attiene a protocolli e regole fisse tramandate dagli avi e man mano, consigliata e spesso spinta dai suoi Primi Ministri, riesce ad affrontare situazioni nuove e ad affrontare vari compiti mai si era pensato dovessero essere svolti da un Monarca. Ad esempio parlare in televisione per augurare un Buon Natale, o aprire il Palazzo al pubblico, oppure apparire sul luogo di una sciagura per confortare i sopravvissuti.
Infatti, nell’ottobre del 1966 ad Aberfan, un villaggio di minatori in Galles di 5.000 anime, l’ultimo giorno di lezione prima delle vacanze, nella scuola primaria Pantglas si erano raccolti tutti i bambini e gli insegnanti a cantare inni, di fronte alla collina Myniydd Merthyr, centro delle attività estrattive e deposito detriti di carbone sulla cima. Nella nebbia qualcuno sentì un boato che si stava avvicinando mentre il pavimento cominciava a tremare. Gli insegnanti ordinarono subito ai bambini di ripararsi sotto i banchi, ma fu tutto inutile. La massa di 160.000 metri cubi, gonfia di acqua e ormai ridotta a una densa fanghiglia, si staccò dalla sommità della collina colando giù a valle e travolgendo proprio la scuola: morirono 144 persone, di cui 116 bambini e 28 adulti appartenenti al personale scolastico. Nove giorni dopo il disastro, arrivò la visita della regina Elisabetta che, dopo che una bambina superstite le porse un mazzo di fiori, fu vista commuoversi in pubblico per la prima volta da quando era salita al trono.
Anche recentemente siamo stati tutti colpiti dal discorso che Elisabetta II ha fatto in televisione pochi giorni fa. A 94 anni, si è rivolta al suo popolo per coadiuvarli nell’affrontare la pandemia del coronavirus, quarto discorso nella vita in 68 anni di regno, dopo quelli in occasione del primo conflitto in Iraq, dei funerali di lady Diana e l’ultimo per la scomparsa di sua madre ultracentenaria nel 2002:
«Vi parlo in un tempo che so essere di crescente difficoltà. Un tempo di sconvolgimento nella vita del nostro Paese che ha portato dolore ad alcuni, problemi economici a molti ed enormi cambiamenti nella vita quotidiana di tutti noi… Insieme stiamo affrontando l’emergenza, se restiamo uniti e risoluti vinceremo noi… Spero che nei prossimi anni tutti potranno essere orgogliosi di come hanno risposto a questa sfida. E coloro che verranno dopo di noi diranno che i britannici di questa generazione sono stati più forti di qualsiasi altro, che le qualità dell’autodisciplina, della cortese determinazione e della comprensione reciproca ancora caratterizzano questo Paese».