Pubblichiamo un testo della Dott.sa Giuseppina Sbrescia, Psicologa e Psicoterapeuta, già apparso sul sito del Comitato EduChiAmo, che agisce per promuovere la didattica nei primi anni di vita dei bambini.
Un giorno i nostri bambini ci serviranno il conto, salato, di tutto questo. Ci chiederanno come abbiamo fatto a dimenticarci di loro, dei loro spazi, dei loro bisogni.
Come abbiamo fatto a sacrificarli alla stregua di una pizza in pizzeria o di un concerto, a farli sparire.
In questa tragedia si compie, silenziosa, un’altra tragedia, quella di percepire i bambini solo ed esclusivamente come pericolosi e inconsapevoli untori, veicoli, vettori del virus.
Insieme a loro sparisce, in un attimo, tutto il loro mondo, anch’esso pericolosissimo, superfluo e, come tale, sacrificabile.
Spariscono la scuola, lo sport, la famiglia allargata, le attività extrascolastiche, gli amici, le relazioni tra pari, le merende, le corse, i bisticci, gli abbracci.
A scuola non si torna. Prima era un’angoscia, detta a tavola a denti stretti in un momento di distrazione dei bambini. Poi é diventato un sospetto, da condividere con le altre mamme in chat. Infine una certezza, trovata nei non detti della politica, dei comunicati stampa, delle conferenze.
La scuola è un luogo fisico identitario, uno spazio in cui il bambino impara ad esistere come altro dalla famiglia.
La scuola è la seconda micro società, dopo la famiglia, con cui il bambino si confronta.
La maestra è un totem che insegna, protegge e nutre.
I bambini spesso si confondono, la chiamano mamma, non già per quella prima sillaba uguale ma perché ne è uguale il simbolo, il significato. I compagni di classe sono gli altri figli che finiranno meravigliosamente e miracolosamente per diventare fratelli e sorelle.
Ebbene, da un momento all’altro, tutto questo è sparito.
Come si fa a spiegare ai bambini piccoli una cosa del genere? Non hanno gli strumenti, cognitivi ed emotivi, per comprenderlo. Gli elementi per la formazione di un trauma ci sono tutti e spetta al buon senso e alla capacità dei genitori, anch’essi provati e disarmati, di spiegare al bambino l’incomprensibile.
Stiamo segnando, in maniera indelebile, una crepa nella loro crescita. I bambini hanno scoperto a loro spese che da un momento all’altro tutto il loro mondo può finire, sparire. Ed in un attimo è finita l’infanzia come stato di grazia, uno strappo violento che ha catapultato i nostri piccoli a fare i conti con l’ineluttabilità della vita. Un lutto gigante, una perdita enorme.
É forse necessario specificare che dalla nascita ai 6 anni è l’arco temporale in cui tutto avviene, si sedimenta e diventa struttura per la futura personalità. Il cervello è plastico, affamato, prontissimo ad immagazzinare ed elaborare un’infinità di stimoli. Un tempo che vale oro depauperato e perso, un limbo infinito nell’attesa di tornare a crescere.
Ma questi sono i bimbi fortunati. Ci sono quelli con i bisogni speciali, quelli con disabilità, i figli di separati, i figli di famiglie a svantaggio psico sociale. Bambini che trovano nel fuori ciò che manca o che non basta dentro, un’ancora a cui aggrapparsi.
I genitori si trovano, ancora una volta soli, a dover gestire disagi, malesseri dei loro figli, che possono presentarsi in svariati modi. Atteggiamenti regressivi, disturbi del sonno, umore irritabile, bisogno di attenzioni e di prossimità fisica, sono tutti segnali che parlano, inascolatati da una società che prova a ripartire senza bambini, senza futuro.