Questa recensione è stata pubblicata con il titolo “Proposte per superare rancore e frustrazione” sul manifesto il 10 aprile 2020-
La pandemia rischia di rendere opachi tutti gli altri aspetti delle nostre vite: ma arrendersi a questo effetto significherebbe precludersi la ricerca delle vie per vivere meglio quando il contagio sarà passato, oltre che per combattere il virus. Ecco che però, pur non condividendo affatto la abusata metafora della «guerra» per dire ciò che ci accade, già le parole «arrendersi» e «combattere» da quella metafora discendono.
IL LINGUAGGIO è la prima spia delle strutture simboliche che ci determinano, e il modo in cui parliamo del virus non fa eccezione. La «guerra», o la «cura» – cura dei malati, cura delle nostre relazioni ferite, stravolte. Alternativa che secondo chi scrive riflette l’essere sessuato dei nostri corpi, cervelli e ordinamenti sociali.
Realtà che riemerge clamorosamente: costretti a casa con bambini piccoli e adolescenti inquieti, obbligati a lavorare dal computer «privato», se non cassintegrati o disoccupati, scopriamo la centralità rimossa del mondo domestico. Qui le donne fanno tutto mentre gli uomini spesso sono ancora assenti, attardati – magari costretti – nel ruolo dei «procacciatori di pane». E le tensioni fanno presto a scivolare in nuove antiche violenze.
In più il coronavirus, a quanto pare, contagia la popolazione maschile più di quella femminile. La virologa Ilaria Capua ha preconizzato un mondo prossimo in cui le donne avranno ruoli più forti. Altro sintomo di quella «crisi» del sesso maschile che è ormai un luogo comune della narrazione mainstream?
Il senso di questa narrazione è scandagliato nel nuovo libro di Stefano Ciccone Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore (Rosenberg&Sellier, pp. 158, euro 13.50) che ha al centro proprio il rapporto tra simbolico e linguaggio. Viviamo in un tempo segnato dalla rivolta delle donne: dal femminismo degli anni ’70 ai cortei globali di Non una di meno, al MeToo. E si potrebbe risalire fino all’equivoco dell’uguaglianza proclamata nel 1789, rivelato dalla condanna a morte di Olympe De Gouges.
IL TESTO DI CICCONE parte da una rassegna dei luoghi comuni mediatici sulla «crisi» maschile aperta dall’autonomia e dalla libertà femminile. È una galleria di ritratti per lo più imbarazzanti: se l’uomo abbandona gli stereotipi virilisti finisce ridicolizzato come «maschio in gonnella» nelle sfilate di moda ideate da stilisti à la page. Se si prende cura dei figli piccoli, diventa un «mammo». Ma più credito non raccolgono reazioni opposte, come il ritorno al mito di una virilità originaria potente e selvatica, garantita da una presunta naturalità. Ciccone analizza questi racconti, vedendo anche nei discorsi più discutibili le tracce del cambiamento. Dietro la misoginia rancorosa di alcune associazioni di «padri separati» si scorge l’idea di una diversa postura paterna. Con l’equivoco che possa essere garantita per legge (si veda la vicenda del «decreto Pillon»).
Il punto, da cui parte e al quale approda il libro, è la mancanza delle parole adeguate a esprimere un desiderio maschile di cambiamento che pure esiste. Mancanza che blocca il mutamento stesso. Ma come inventare parole nuove?
LA VIA SUGGERITA non è facile. È basata su un dialogo serrato con il pensiero maschile che si è confrontato con la sessualità, la violenza, l’inconscio e l’immaginario degli uomini. I nomi che ricorrono, tra gli altri, sono quelli di Connel, Mosse, Foucault, Bourdieu, Osvaldo Pieroni. Non senza una critica esplicita a certi sviluppi di letture lacaniane ( vedi Recalcati ) che rispondono alla «evaporazione del padre» di fatto riproponendo la funzione disciplinatrice di una sia pure rideclinata «legge» paterna. Ricco il confronto col femminismo, in particolare con autrici del pensiero della differenza, ma non solo: Melandri, Lonzi, Boccia, Fraire, Dominijanni, Muraro (con diverso sguardo sul tema della forza e della violenza affrontato dalla filosofa in Dio è violent). E forte il richiamo alle varie direzioni del percorso Queer e Lbgtq.
LA PROPOSTA di questa elaborazione culturale è basata su una scommessa vitale radicale: la nuova libertà femminile non va vissuta come minaccia destabilizzante, ma come occasione di una più libera identità e sessualità anche dagli uomini, che sono come imprigionati dagli stereotipi – e dai vantaggi (dividendi patriarcali, li ha definiti Connel) – del proprio dominio oggi contestato. Occasione che può condurci alla «scoperta di una soggettività altra tradizionalmente rimossa», se impareremo a vedere il «limite» della nostra parzialità, e a riconoscere il desiderio differente dell’altra e dell’altro. Limite non come ostacolo, ma come soglia da cui ripartire.
Dunque un testo per una discussione-riflessione, che c’è da augurarsi sia ampia.
Alla quale cerco di contribuire con qualche domanda. Con Stefano Ciccone abbiamo una lunga pratica comune di luoghi della sinistra e della rete di maschile plurale. Come entrano queste esperienze vive nella elaborazione teorica che il libro propone? Un capitolo affronta il «sesso» del populismo sovranista, ma poco si dice, se non implicitamente, del silenzio e delle resistenze a sinistra nell’affrontare la «questione maschile». Questione che declinerei anche come «crisi» dell’autorità maschile. Nel libro si alternano spesso i termini «autorità» e «autorevolezza»: ma per «prendere di petto» (virilmente?) il nodo autorità-potere che ci riguarda è utile accantonare la parola stessa?