Pubblichiamo questa recensione di Franca Chiaromonte apparsa anche sul sito della Fondazione Nilde Iotti.
Ho letto il romanzo di Maria Rosa Cutrufelli “L’isola delle madri”. Il suo lavoro è bellissimo.
Maria Rosa scrive libri. Sempre, tanti. Romanzi, pagine di viaggio, saggi, racconti. Impegnata nel movimento femminista, da sempre e con posizioni mai banali, ricordo Lei che scrive sempre. Molti libri. Tanti romanzi. Tanti viaggi. Tanti saggi. Tanti racconti.
Ricordo la descrizione degli ultimi quattro mesi di vita di Marie Olympe de Gouges, femminista all’epoca della Rivoluzione francese.
Con Il giudice delle donne: siamo ai primi del Novecento, a Montemarciano, paese in provincia di Ancona che guarda l’Adriatico, dove dieci maestre, capeggiate da Luisa la moglie del sindaco socialista, accolgono l’appello di Maria Montessori a chiedere il diritto al voto anche per le cittadine. le donne: la descrizione di una delle battaglie condotte dalle donne e della storia che abbiamo alle spalle.
Ora è uscito “L’isola delle madri”. Un romanzo che lambisce la realtà, nuota nella fantasia, però non cade nell’astrazione. Anzi, sta al passo con i nostri passi. E con le donne che potremmo incontrare in un caleidoscopio di immagini che ci circondano. E che sono le nostre, quelle delle nostre amiche, del loro corpo, degli sguardi, delle speranze che coltivano.
Donne concrete, decise a realizzare una comunità.
Livia, Mariama, Kateryna e Sara, la direttrice della Casa della maternità.
Quattro figure femminili diverse per età, provenienza, trascorsi, unite dal bisogno di trovare un senso, impegnate a confrontarsi faccia a faccia con l’idea di essere, o non essere, madri. Tutte e quattro hanno degli interrogativi densi di possibilità, di solidarietà da rivolgere a se stesse, al mondo.
“Mah, pensa Mariama. Per me è stata un pozzo buio… Vero però che nessuna gravidanza è uguale all’altra e che partorire in un campo di prigionia non è come partorire alla Casa di maternità: alimentazione adeguata, assistenza medica e riposo, tanto riposo. Un lusso”.
«Tu l’hai fatto» medita ad alta voce. «E se l’hai fatto tu, posso provarci anch’io, non credi?»
Qui gli uomini non sono necessari. “Perché gli uomini hanno abdicato alla loro funzione di cura?”
La cura non è nelle loro corde. Anche se qualcuno fa eccezione non riescono a ribaltare la situazione.
E poi c’è la sentenza. «No» dice Sara, dopo aver ascoltato l’avvocato. «Non mi è chiaro per niente? In base a quale norma il giudice ha stabilito che la bambina deve essere adottata? Vorrebbe avere la bontà di spiegarmelo meglio?»
Primo, la sequenza dei fatti. Perché è questo che determina l’anomalia del caso e giustifica l’intervento del giudice.
«Che assurdità» lo interrompe Sara. Una madre genetica è una madre, che altro può essere? Ha donato gli ovociti e il suo contributo alla procreazione è pari a quello dell’uomo che dona il seme. Dunque, l’uomo fa scoccare la scintilla della vita e la donna la contiene come un vaso? Questo significa «un ritorno alla preistoria.»
L’oggi è fatto di cura, malattia, cose pratiche, interessi, consigli da dare o da ascoltare. Oppure del tempo triste riempito da quel cane, Febo, arrivato in dono.
“E quando Livia si metteva in poltrona a piangere per tutto quello aveva perso, l’utero, le ovaie e il bambino dei sogni, lui arrivava zitto zitto e le poggiava una zampa sulle ginocchia.”
Tutto questo riguarda le possibilità, le illusioni, le delusioni della vita di una, di tante donne. Come l’ambiente. La natura certo è corazzata, ma scelte dell’oggi decideranno della nostra esistenza e del nostro essere quell’uomo e quella donna sulla Terra! Non sono in questione classi o ceti: operai, casalinghe, intellettuali. E non è in questione la politica.
Nel romanzo il cambiamento climatico ha definitivamente compromesso e avvelenato qualsiasi orizzonte di vita, le biotecnologie riproduttive hanno modificato per sempre l’esistenza degli uomini e la società, mentre un morbo si è pandemicamente diffuso: si chiama “malattia del vuoto”.
Tutto questo è la vita. Con il mare che la bagna. Prima, con l’inquinamento, le tartarughe non le vedevi. Ora sì. Non quelle vecchie. «Vuoi dire le tartarughe adulte? Le madri? Eeh… Quelle se ne sono andate da un pezzo. Di sicuro non sono madri ansiose!». Scavano il nido, lo coprono con grande cura, questo sì, almeno un metro di sabbia, ma non appena hanno finito se ne vanno per i fatti loro. Il mare le attende”.
Con la loro storia.
A conclusione del romanzo Maria Rosa Cutrufelli cita Rachel Carson. Il suo saggio che produsse “più o meno lo stesso scandalo che aveva suscitato, a suo tempo, “L’origine delle specie” di Darwin. Con l’aggravante che stavolta a scrivere era una donna”.
Simile alla piccola Nina, il cui nome, voluto da Livia, risuona assieme al rumore delle ciabatte di Mariama, alla ninna nanna della culla di Kateryna (e di Petro).
La repubblica delle madri, a suo modo, ha funzionato. Raccontando di percorsi individuali che alludono a un destino collettivo: vicende inusuali che, nonostante la fantasia, sembrano assolutamente normali.
Maria Rosa Cutrufelli
“L’isola delle madri”
Mondadori, 2020, pp. 240, euro18,00