L’abito – si sa – non fa il monaco. E tuttavia come ci vestiamo dice anche chi siamo. Abito deriva dal latino habere, avere, che ha molto a che fare con l’essere. Ciò che abbiamo, che portiamo per abitudine, contribuisce a definire la nostra vita. L’abito è anche mentale, e partecipa per così dire tanto della radice dell’anima quanto della superficie dell’apparenza.
Tutto ciò per segnalare un’iniziativa di marketing della Ermenegildo Zegna, che ha lanciato una campagna, in globale inglese, basata sugli interrogativi che pare assillino l’identità maschile: “what does it mean to be a man today?”, con tanto di hashtag, #whatmakesman?
Che significa oggi essere un uomo? Che cosa fa di me un maschio?
Domande, non affermazioni, ma gli ideatori della campagna-dibattito, affidata a testimonial fascinosi come l’attore Mahershala Ali, l’indimenticabile pianista di Green Book, dicono che “gli uomini stanno imparando a confrontarsi con le loro forze e debolezze più profonde e sono disposti a rischiare per dare voce all’idea di mascolinità, anche se ciò significa sfidare il concetto tradizionale di virilità”. Nel quale evidentemente, a detta del Ceo dell’azienda (citato da Fiorenza Bariatti su Style magazine), qualcosa non funziona più bene come una volta.
Ho partecipato a un confronto, a Pinerolo, sulla prostituzione – definita da Rachel Moran “stupro a pagamento”- e la sessualità maschile. C’è stato uno scambio molto franco con Grazia Villa (tra le autrici del libro Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, edito da Vanda.epublishing), con un giovane amico – Gianluca Giraudo – che ha scritto una densa tesi di dottarato sulla “politica della maschilità in Italia” seguendo in particolare due “forme di associazionismo maschile” una delle quali è il gruppo romano “Maschile in gioco” di cui faccio parte (l’altra è una realtà che fa capo alle idee di Claudio Risè, alla ricerca – credo nostalgica – di una sorta di virilità perduta). Confronto ricco poi con numerose donne e uomini intervenuti a più riprese.
Non posso riferirne diffusamente qui: segnalo che una delle parole più riprese è stata il silenzio di noi uomini, pubblico e privato – ne ha parlato Gianluca – su desideri, sentimenti, emozioni, vita erotica (a parte certe chiacchiere e battute da bar o da ufficio, spesso infarcite di fantasie oltre che di stereotipi rassicuranti).
Penso anch’io che questo silenzio vada rotto. Anche per contrastare il clamore che troppi uomini, spesso da luoghi di potere, producono rilanciando antichi machismi, familismi, moralismi più o meno ipocriti.
Parlare sinceramente di sessualità, senza rimuovere la diffusa partecipazione ai mercati del sesso, è molto difficile. Si rischia di iscriversi anche senza volerlo nel partito dei “buoni” contro i “cattivi”, magari contribuendo tutti insieme a una rivittimizzazione delle donne. Mentre è con la nuova forza e libertà femminile che è aperto il confronto.
Ho provato a dire qualcosa sulla responsabilità che tutti abbiamo nella costituzione della “domanda” che sostiene il sesso a pagamento, comprese le forme più orribili di schiavismo e traffico di persone, ma anche a cambiare il discorso. Ripartendo da una ricerca sul e del desiderio e del piacere erotico, che è o sarebbe possibile negli scambi tra uomini e donne, come tra uomini, tra donne, tra persone con diversi abiti sessuali. Come suggeriva, non senza contraddizioni, il vecchio Foucault: sottrarsi alle ossessioni della scientia sexualis, di un supposto sapere del potere e della tecnica, e provare a riprendere la creazione di una ars amandi nelle nostre relazioni, non più normata – come per secoli – a sesso unico.