Non credo che servano a molto le analogie con gli anni ’30 per reagire adeguatamente alla deriva autoritoria, razzista e machista che è attualmente impersonata dal ministro dell’interno, il quale dà evidentemente voce, e sponde, a pulsioni aggressive e irrazionali diffuse tra molte persone che vivono in questo paese.
Tuttavia ripassare la storia è sempre utile, specialmente se non la si conosce già bene, e si può trovare qualcosa che ci ispira orientamenti mentali e pratici adatti all’oggi, con le necessarie traduzioni in un tempo tanto diverso. Mi è capitato leggendo un breve testo di Hannah Arendt (La lingua materna, recentemente riedito da Mimesis) in cui l’autrice della Banalità del male, durante una conversazione televisiva (condotta da Günter Gauss nell’ottobre 1964) racconta come sua madre le insegnava a reagire agli atteggiamenti razzisti che potevano essere rivolti a una bambina ebrea. Il racconto, tra l’altro, ci dice che l’antisemitismo era una realtà già negli anni della prima guerra mondiale e nell’immediato primo dopoguerra, quando Hannah, nata nel 1906, andava a scuola, ben prima dunque dell’avvento di Hitler.
“Tutti i bambini ebrei – racconta Arendt – hanno avuto a che fare con l’antisemitismo. Ha avvelenato l’anima di tanti bambini. La differenza per noi era che mia madre partiva sempre da questo piunto di vista: non bisogna abbassare la testa! Bisogna sempre difendersi! Se i miei professori avessero fatto delle osservazioni antisemite – per lo più non in riferimento a me ma alle altre studentesse ebree, per esempio ebree orientali – ero stata istruita ad alzarmi, abbandonare la classe, tornare a casa e stendere una relazione dettagliata su ciò che era avvenuto. Mia madre scriveva una delle sue tante lettere raccomandate; e per me l’incidente era assolutamente chiuso. Avevo un giorno di vacanza in più, ed era molto bello. Ma se le osservazioni venivano fatte dagli altri bambini, io non dovevo raccontare nulla a casa. Non valeva la pena. Con i bambini ci si difende da soli (…) A casa mia esistevano delle regole di condotta che mi consentivano di mantenere e di proteggere assolutamente la dignità”.
Questo racconto mi ha fatto pensare che il punto decisivo è trovare, anche oggi, il linguaggio capace di offrire alternative simboliche. Immagino che non serva a molto scandalizzarsi se Salvini canta l’inno di Mameli sulla spiaggia con le cubiste, ma se il ministro risponde “zingaraccia ti mando la RUSPA” a una persona che gli augura la morte, bisogna “fare una relazione dettagliata” perché a chi ha giurato sulla Costituzione e tendenzialmente ci rappresenta tutti non può essere consentito di parlare e comportarsi in modo di coprire e aizzare comportamenti razzisti. Nella “relazione dettagliata”, però, va anche affrontata l’origine della battuta inaccettabile del ministro. Perché una persone, zingara o meno che sia, non deve minacciare di morte nessuno. E forse bisognerebbe dire qualcosa anche sulla situazione – una porzione di territorio milanese tra degrado e villette abusive, ripresa per alcuni minuti da una videomaker del Giornale – che a un primo sguardo non sembra corrispondere agli standard di una città civile come Milano.
Approfondire questi “dettagli”, a mio parere, non indebolirebbe affatto la denuncia delle parole inammissibili e molto gravi di Salvini, ma anzi rafforzerebbe l’idea che le soluzioni ai problemi che l’episodio sottende non possono essere l’odio contro gli zingari o l’uso minaccioso di ruspe. Così come combattere chi salva i naufraghi non potrà risolvere in alcun modo il dramma delle migrazioni contemporanee.