La parola sogno deriva molto semplicemente dal latino somnium, sonno. Molto meno semplice sarebbe spiegare perché il significato di sogno si sia nel tempo così staccato da quello del dormire. Tanto da assumere valori simbolici opposti nelle nostre vite: si sogna “a occhi aperti” quando si crede di vedere l’oggetto dei più forti desideri. Una cosa o una persona è bella come un sogno. Ma si dice anche che un’idea è un sogno per affermare che è priva di fondamento, che non appartiene a quella che ci sembra la realtà.
Eppure, anche molto prima delle teorie di Freud, si attribuiva al contenuto dei sogni il potere di rivelarci le verità più profonde.
Nel lontano 1972 Ursula K. Le Guin pubblicava un romanzo breve tradotto in italiano col titolo Il mondo della foresta; la titolazione originale era molto più intrigante: The word for world is forest, la parola per dire mondo è foresta.
Vi si narra – come sanno i molti e le molte che lo hanno letto – di un pianeta coperto dalla foresta in cui vive un popolo di umani diversi dai terrestri, che i terrestri vogliono colonizzare, naturalmente agendo molte violenze contro quell’ambiente e quelle persone relativamente “aliene”. Gli alberi vengono indiscriminatamente abbattuti, perché il legname fresco serve alla Terra che ne è ormai completamente priva. Gli abitanti del mondo-foresta, piccoli come bambini e ricoperti di peluria verde, vengono di fatto schiavizzati, anche se formalmente partecipano a attività di lavoro “volontario”.
Ma la grande differenza non sta tanto nei corpi, nella statura o nella pelliccia, quanto nel regime linguistico e simbolico. I quasi-alieni vivono in un modo molto più simbiotico con l’ambiente silvestre del loro pianeta, non sono ossessionati dal progresso tecnico, non si comportano in modo violento, e pensano, parlano e agiscono nella doppia realtà della veglia e del sogno attribuendo a quest’ultimo un valore di verità semmai superiore a quello proprio del non-sogno.
Questa vita – migliore di quella a cui siamo più o meno abituati? – verrà sconvolta dalla violenza terrestre. C’è una ribellione vittoriosa, ma per la prima volta viene infranto il divieto di uccidere l’altro che regolava l’umanità della foresta-mondo.
Si salva forse solo una cosa: l’amicizia tra due uomini, oltre le differenze. Il capo della rivolta degli autoctoni, e lo scienziato terrestre che è più interessato a conoscere e a capire l’altro, piuttosto che a sottometterlo.
Ai tempi della prima pubblicazione il testo sembrò – ed era anche, effettivamente – una allusione alla guerra in Vietnam, alla quale la femminista Le Guin si opponeva. Ma immagini e metafore sulle relazioni tra uomini e donne, sulle motivazioni della violenza mentale e fisica contro chi è vissuto come “diverso”, e sull’aggressione all’ambiente, restano vivissime anche oggi.
Leggiamo del governo di Bolsonaro in Brasile che riprende la deforestazione. Viviamo ogni giorno paura e odio contro chi ci starebbe “invadendo”, anche se scappa da fame, torture e massacri.
Ascoltiamo una scienziata che cerca di riprodurre roboticamente la vita delle piante parlare di “intelligenza diffusa” nel corpo di esseri a loro modo senzienti – come i rampicanti, per esempio – connessa a vaste reti di scambio nell’intreccio delle radici sotterranee.
Pensando ai sogni siamo indotti a riflettere sul fatto che le verità più importanti (spesso inconsce) sono dentro di noi. E che l’utopia più necessaria e urgente è forse quella di una amicizia non violenta tra maschi.
(A suggerirmi questo bellissimo libro, con parole e scritture, è stata mia figlia Gaia)