Questo articolo è stato pubblicato sul n.2 “Corpo” delle rivista Luoghi comuni, edita da Castelvecchi, con il titolo: Il corpo-mente fallico, emergenza politica.
A proposito di tradizione patriarcale «se di questa il simbolo dei simboli è il fallo, dobbiamo porre l’istanza della distinzione tra pene e fallo. Se questo è da rifiutare, il pene può venire recuperato all’interno di una nuova sessualità in cui non sia più delegato a rappresentare la sessualità maschile, nella divisione del lavoro del corpo, mentre tutto il resto, mente compresa, serve per vendere la propria forza lavoro». E’ Mario Mieli, in un articolo del ’73 sul n.9 del “Fuori!”, intitolato “Il fallo nel cervello”, a citare questo passaggio da un altro testo di Corrado Levi (pubblicato sul numero precedente della stessa rivista), osservando poi che «nella società patriarcale – e nel nostro caso, in quella capitalistico-patriarcale – il pene è prigioniero di quel solido costrutto storico-ideologico che è il feticcio del fallo. L’idea del fallo ha sede nella mente, cui fornisce il metro maschile per la rappresentazione e la conoscenza del mondo, nonché per la riflessione razionale su di esso e “per la fuga dal contenuto del reale (povertà, amore deluso, fallimenti delle proprie imprese ecc.)” nell’immaginazione (J.P. Sartre, L’imaginaire, 1939)».
Ancora Mieli osserva che è questa mente fallica a ordinare il “campo di battaglia” con “l’individuo corporeo che alla mente fa capo”. E in una società «che fonda se stessa sul dominio e sull’antitesi, il corpo è totalmente soggetto alla mente, così come il pene al fallo».
Per una coincidenza non del tutto casuale prima di scrivere questo articolo ho trovato in una libreria dove ero entrato per comprare il libro di Francesco Piccolo L’animale che mi porto dentro, anche un altro volume – appena uscito per Marsilio – La gaia critica, che raccoglie una quantità (tra il ’72 e l’83) di scritti dell’autore degli Elementi di critica omosessuale. Non ho potuto fare a meno di un confronto tra due tipologie di dualismo.
Nel romanzo-saggio più o meno “autobiografico” di Piccolo si parla di una sfera razionale e sentimentale che non riesce a liberarsi dal dominio di una sorta di “animale” naturale, violento e aggressivo, in qualche modo indotto e tutelato, eretto a norma dal “panopticon” degli sguardi degli altri maschi che accompagnano il protagonista per tutta la vita (a cominciare da quello del padre, unito a una buona dose di violenza fisica inflitta al figlio negli anni dell’infanzia). Una “lotta di liberazione” personale che alla fine dichiara una specie di sconfitta ma accettata di buon grado, perché in fondo l’energia poco domabile di quell’”animale” è stata funzionale al raggiungimento di alcuni fondamentali obiettivi di vita, successo professionale, successo con le donne, e perfino un ritorno di affetto matrimoniale, sia pure in una relazione ormai priva di desiderio (e dopo il bruciante abbandono da parte dell’amante “veramente” amata).
Non so se qui si parla – non giudico il valore letterario – di un malinconico realismo sullo stato presente delle cose (maschili, e non solo), o di una pacificata adesione a una buona condizione sociale e culturale acquisita dal protagonista-autore.
Nulla a che vedere, in ogni caso, con la radicalità con cui Mieli connette la condizione di scissione nel corpo-mente maschile alla realtà di un contesto ideologico, economico e simbolico in cui il nesso tra “razionalità” capitalistica e norma eterosessuale e patriarcale è assai denso e stretto. La lotta e la critica “gaia” qui tendono a superare tutto questo in vista di quel “regno della libertà” evocato da Marx, per raggiungere il quale però non basterà il superamento del modo di produzione capitalistico, ma ci vorrà una liberazione dell’Eros di cui momento essenziale sarà non solo la fine della repressione contro gli omosessuali manifesti, ma la liberazione di quella “componente omoerotica del desiderio da parte di tutti gli esseri umani”. Mieli, che fu amico di alcune delle femministe più impegnate in quegli anni, riconosceva che il soggetto fondamentale di questo salto antropologico e di civiltà sono le donne, ma pensava che un ruolo potesse essere svolto dai maschi omosessuali, e forse da maschi etero capaci di avere a che fare col proprio “omoerotismo”.
Si dirà: pensieri e anni molto lontani.
Eppure, dopo la parabola tragica del “socialismo reale”, dopo la crisi devastante degli ultimi dieci anni di capitalismo globale, vittorioso e liberista, molte cose ritornano, anche se non sono proprio le stesse. Il moto di liberazione delle donne si allarga in tutto il mondo, insieme al rifiuto sempre più netto (con il MeToo) dell’aggressività e della violenza sessuale maschile, mentre la reazione politica di destra si carica ogni giorno di più del linguaggio e dei propositi di una restaurazione autoritaria anche maschilista.
Oggi si rilegge con occhi diversi Marx, e tanto più mi sembra avere senso rileggere chi già nella stagione straordinaria dei decenni ’60 e ’70, lo usava senza rimanerne prigioniero. Inoltre quelle idee e quelle esperienze, nonostante la lettura, certo non del tutto infondata, del “riflusso”, hanno stimolato qualche continuità.
Mieli moriva suicida a trent’anni nell’83. Tra la fine del decennio e gli anni ’90 si apriva tra Roma e Bologna la vicenda di alcuni gruppi informali di uomini, tra cui etero e omosessuali, che sentivano il bisogno di tentare una pratica politica di condivisione (c’era e resta una certa reticenza a usare la parola autocoscienza, utilizzata dal femminismo) e di intervento attivo: trasformare se stessi superando le ipoteche patriarcali e tentando nuove relazioni personali e politiche tra maschi e tra uomini e donne. Questa pratica si nominò “maschile plurale”.
Esperienza che ho incrociato negli anni successivi, anche grazie a seminari “misti” che si sono tenuti per lunghi periodi sia nel Veneto (a Asolo e Torreglia, per iniziativa dell’associazione “Identità e differenza” e con la partecipazione delle femministe della Libreria delle donne di Milano) e in altri luoghi (Anghiari, Pinerolo, Ravenna). Nel 2006, in seguito a discussioni e scambi in queste situazioni, alcuni di noi scrissero un testo sulla violenza contro le donne in cui si diceva una cosa molto semplice, ma normalmente rimossa: siamo noi maschi a esercitare la violenza, è qualcosa che ci riguarda tutti, dobbiamo farcene carico, personalmente e pubblicamente.
Quel testo, che interpretava la violenza maschile attuale anche come nuova reazione all’autonomia e alla libertà femminile affermata a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ricevette una inattesa adesione maschile. E “maschile plurale” allargò la sua presenza e iniziativa, dotandosi anche di strumenti associativi.
Nel gruppo di cui faccio parte a Roma negli ultimi due o tre anni lo scambio si è molto concentrato sulla sessualità maschile, con la messa in luce di tratti comuni tra maschi eterosessuali e omosessuali. Con contraddizioni che si ripetono anche nel passaggio a nuove generazioni. Ne ho tratto convinzione ancora maggiore che nessun vero cambiamento anche di natura politica potrà prescindere dalla capacità di noi uomini di avere finalmente a che fare con l’opacità che vela a noi stessi la realtà dei nostri corpi, dei condizionamenti simbolici che li limitano, delle potenzialità di un desiderio che non è realmente libero, pur nella condizione di appartenenti al sesso finora dominante.
Questa ricerca non può prescindere da una diversa pratica dello stare insieme sia tra maschi, sia negli scambi con le donne e con persone di diversi orientamenti sessuali. Né da un ascolto del nuovo pensiero, soprattutto femminile e femminista (ma oggi anche dell’area Queer), che sui nessi tra differenza sessuale e contesti sociali e identitari si va elaborando. La centralità dei corpi è emersa in una ricca discussione avviata negli anni scorsi dopo la pubblicazione del testo “La cura del vivere” da parte del Gruppo femminista del mercoledì, di Roma , nel 2011. Ne ha scritto Letizia Paolozzi raccontando numerosi incontri un po’ in tutta Italia (Prenditi cura, et al. 2013). In quelli a cui ho partecipato ho notato come numerosi uomini – che forse più che nel passato hanno maggiori esperienze dirette di quel “lavoro di riproduzione” rivolto al benessere di bambini, anziani, persone con disagi – reagiscano con improvvise aperture di senso rispetto a un discorso che, avendo alle spalle il rifiuto femminista di accettare supinamente i ruoli di “angeli del focolare”, oggi però rivendica il “di più” che esiste nella cura.
Un “di più” tanto indispensabile alla vita di tutti quanto generalmente rimosso dalla visione socio-economica prevalente. Oppure ridotto alle funzioni di uno “stato sociale” sempre più povero e inadeguato. Si tratta di un paradigma diverso (non una utopia, ma qualcosa che è già parte delle nostre vite), che potrebbe informare una relazione non violenta e non distruttiva – senza rimuoverne gli aspetti conflittuali né le insidie del potere – sia tra le persone, vissute nella loro differenza sessuata, sia con l’ambiente e con i modi dell’organizzazione sociale e economica.
Ma il corpo – il corpo maschile e il suo conflitto interno irrisolto – credo sia alla base anche del persistere e del riemergere di ideologie politiche intrise di violenza, autoritarismo, disprezzo per coloro che sono considerati “diversi”.
Mi ha colpito tempo fa la lettura di un vecchio saggio di Lévinas sulla “filosofia dell’hitlerismo” (1934): il razzismo come forma ideologica di un “incatenamento al corpo” che riduce il dualismo tra io e corpo a un unico elementare biologico. Una cosa che scatena aggressività, violenza, guerra come eliminazione dell’altro, del diverso, del nemico. E mette in gioco non solo un’ideologia e una politica totalitaria, ma l’umanità stessa.
A me pare che si parli qui – non del tutto consapevolmente – del corpo maschile. Per elaborare il rischio di questo incatenamento biologico – probabilmente sempre in agguato – sembra necessaria una dialettica liberatrice tra “spirito” e corpo.
Ecco il dualismo da cui sono partito che si ripresenta in un’altra declinazione. Da qui la tendenza all’astrazione, a un fare mondo attraverso ideali universalistici astratti e le loro discipline, spesso feroci.
Questa forse è la ricerca da aprire: tornare alla realtà dei nostri corpi, senza incatenarsi alla loro biologia, ma senza rimuoverne la realtà concreta, differente e singolare.
Andrea Ranieri, nell’editoriale che ha aperto il primo numero di questa rivista, ha citato a lungo Michel De Certeau. E’ uno stimolo e una suggestione che condivido molto. Per uscire dallo stato di obnubilamento in cui sembra versare la politica (maschile) oggi, a sinistra e non solo, bisognerebbe saper riprendere il metodo sapiente – e paziente – tentato da De Certeau negli anni ’80 per cogliere le “invenzioni del quotidiano”. Il modo di reagire delle persone agli stimoli di un ambiente condizionato da logiche sociali e economiche, culturali e mediatiche, legali e simboliche, da forze e forme del potere, tanto spesso ostili alla libertà e alla dignità di ognuno. Un conoscere basato sui saperi analitici e critici di cui disponiamo, e insieme sulla costruzione di relazioni sul campo, per tutto il tempo necessario, capaci di riconoscere gli altri/altre nella concretezza e ricchezza dei corpi sessuati.
Non si tratta di cercare e combattere gli “animali che ci portiamo dentro”, ma di riconoscere pienamente che siamo animali. Parola che allude al respiro, al dare e essere vita (e se ci piace pensarlo, di avere persino un’anima).
Testi di riferimento
Mario Mieli, La gaia critica. Politica e liberazione sessuale negli anni settanta. Scritti (1972-1983) – 2019 Marsilio
Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, 1977 Einaudi
Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro, 2018, Einaudi
Maria Luisa Boccia, Le parole e i corpi, scritti femministi, 2018 Ediesse
“La cura del vivere”, Gruppo femminista del mercoledì, 2011
Letizia Paolozzi, Prenditi cura, 2013. et. Al/
“La violenza contro le donne ci riguarda:prendiamo la parola come uomini” -2006
Stefano Ciccone, Essere maschi, tra potere e libertà 2009 Rosemberg & Sellier
Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, 1996 Quodlibet
Michel De Certeau , L’invenzione del quotidiano, 2001 Edizioni Lavoro
Federico Zappino, Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità, 2019, Meltemi