Il cartello di NUDM recita: “Attento tu machista! La Circumvesuviana sarà transfemminista”. Magari! Tra pochi controlli, abbandono e incuria, la Circum – come viene chiamata – non è amica della libertà femminile.
E il campo di battaglia è la parola della donna. “Non sei sola” reagiscono le femministe alla scarcerazione dei tre ragazzi indagati per lo stupro il 5 marzo della ventiquattrenne in un ascensore della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano, decisa dai giudici di tre distinti collegi del Riesame.
I tre giovanissimi hanno ammesso i rapporti ma sostenendone la consensualità. Il gip aveva convalidato le carcerazioni (“I referti medici hanno confermato gli abusi”), il Riesame le ha bocciate: «Non è raggiunta, allo stato degli atti, la soglia della gravità in ordine al dissenso alla consumazione dei rapporti» scrivono i giudici. Decisione contro cui la Procura di Napoli si prepara a presentare ricorso in Cassazione.
Per l’opinione pubblica i tre erano “belve”, ora la situazione si ribalta. Inattendibilità, colpevolizzazione della ragazza, oltraggio alla sua intimità. Condizione psicologica e cartella clinica del centro di salute mentale di Torre del Greco diventano la prova della fragilità e la fragilità un’attenuante per i presunti autori della violenza che si schierano sulla linea Maginot del “lei non si è opposta”. Ma questa fragilità di chi afferma di aver subito violenza non dovrebbe semmai essere considerata un’aggravante?
Così andrebbe intesa come cordiale la mano di lui poggiata sulla spalla di lei; ammiccante il bacio di lei sulla guancia di lui; volontario l’ingresso di lei in ascensore con i tre. Quasi un patto consensuale. Dovevano trascinarla in ascensore per testimoniare la violenza?
“Sorella, noi ti crediamo” dicono le femministe. Sono, siamo un mondo a parte noi che l’ascoltiamo, noi che abbiamo fiducia in lei perché “lei è anche noi” (ha scritto Viola Lo Moro della Libreria Tuba di Roma)?
Dalla parte dei maschi la situazione si ribalta. Dove è finito lo stato di diritto, le garanzie, le procedure se ci accusate di essere violentatori, stupratori, molestatori in quanto apparteniamo al sesso “forte”? E se lei non ha reagito, non ha urlato, se magari ci ha ripensato in ascensore, perché ci buttate la croce addosso? Non abbiamo colpe. Lo dimostrano gli applausi quando siamo usciti dal carcere.
In tanti diffidano della parola femminile nonostante l’urto del #Me Too e ancora prima del femminismo, con le Case delle donne Maltrattate e i Centri antiviolenza che puntano il dito contro la violenza maschile.
Senza arrivare alla figura della “donna isterica” – la cui denuncia verrà messa da parte, promette il ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno nel difendere l’efficacia del Codice rosso (la nuova legge sulla violenza di genere) – la giustizia fatica a prendere in considerazione il fatto di trovarsi davanti un uomo e una donna e la vicenda di dominio secolare.
Ha scritto il magistrato Carlo Nordio che “la legge non può discriminare le sanzioni in funzione del sesso” ma qualunque legge ha un rapporto con un determinato contesto. Oggi le donne sono meno disposte del passato a subire la violenza.
Per i giudici di appello di Messina l’uccisione a coltellate di Marianna Manduca (dopo dodici denunce!) era inevitabile. Il marito aveva deciso e “a nulla sarebbe valso sequestrargli il coltello con cui l’ha uccisa, dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità dell’arma”.
Per l’assassino di Jenny (Angela Coello Reyes) pena con attenuante perché mosso “da un misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento”. Sullo stesso piano la sentenza della Corte d’Appello di Bologna per l’omicida di Olga Matei , in preda a una “tempesta emotiva”.
A me pare che nessuno uccida con la calma di Tom Cruise in “Collateral”.
Ammetto di non sapere nulla della materia penale ma queste sentenze mi impressionano. Sono d’accordo che bisognerebbe non estrapolare frasi dal contesto logico e giuridico in cui sono inserite. Tuttavia, i giudici sembrano non rendersi conto che il linguaggio impiegato nelle sentenze dovrebbe essere comprensibile, scelto con attenzione e sensibilità nei confronti delle vittime: chi subisce violenza va ascoltato.
D’altronde, non c’è solo la legge alla quale rivolgersi. In un’epoca di “populismo penale” (Didier Fassin “Punire. Un’ossessione contemporanea”, traduzione di L. Alunni, 2018, Feltrinelli) nella quale in tanti ascoltano la pancia del Paese e offrono come soluzione l’aumento delle pene, le donne – è una grande conquista – si ascoltano reciprocamente.
In quest’epoca, nella quale il patriarcato uscito dalla porta vorrebbe rientrare dalla finestra (proposta di legge della Lega sull’adozione dell’embrione, Congresso mondiale delle Famiglie a Verona), gli uomini, i ragazzi dovrebbero imparare a riflettere sui propri gesti, sul modo che hanno di guardare le donne, di avvicinarle, di trattarle.
Come recitava il cartello tenuto dritto con qualche fatica da un piccoletto alla manifestazione di NUDM dell’Otto marzo: Vogliamo uomini saggi e donne autorevoli. La richiesta vale anche per i giudici, che siano di sesso maschile o femminile.