Cosa è cambiato nel dibattito sulla prostituzione negli ultimi tre decenni? Me lo sto chiedendo dalla fine della tre giorni di Feminism/2, seconda edizione della editoria femminista alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, dove tra i molti incontri e nuovi libri si è discusso largamente delle recenti proposte di legge in materia, dell’apertura delle case chiuse, della punibilità del cliente, di tratta e sfruttamento.
È così che mi sono tornati alla mente due volumi scritti anni fa da due donne che si sono battute nel corso della loro vota per i diritti delle prostitute: Roberta Tatafiore e Carla Corso. La prima, giornalista fuori da ogni schema per genialità e coraggio, scrisse nel 1994 Sesso al lavoro (Il Saggiatore), reportage e riflessioni sul mondo delle prostitute e dei loro clienti; volume ripubblicato nel 2012 grazie a Bia Sarasini, che ne aggiorna i punti chiave alla luce degli avvenimenti politici che in quegli anni riaccesero la discussione (Berlusconi e il caso Ruby, le Olgettine e tutto quello che ne derivò). Carla Corso è stata la prostituta che insieme a Pia Covre (e il supporto di Roberta) diede vita nel 1982 al Comitato per i diritti civili delle prostitute” e fondatrice della rivista Le lucciole. Nel 1991 scrisse con la collaborazione dell’antropologa Sandra Landi Ritratto a tinte forti (Giunti), autobiografia e fotografia del mondo della prostituzione in Italia.
In un capitolo che si chiama “Da prostitute a sex workers. Un itinerario politico-linguistico”, Roberta evidenzia l’importanza del cambiamento della definizione di prostituta. «Dopo una vera e propria lunga marcia, dunque, il termine sex work, inventato da donne per significare una presa di coscienza politica della propria condizione, si è radicato anche al di fuori dei circoli femministi in cui è nato ed è stato accolto fin dentro le istituzioni […] la riflessione politica portò immediatamente all’invenzione linguistica», perché prostituzione indicava soltanto il rapporto cliente-denaro e non era inclusivo delle altre prestazioni, come i set pornografici. Lavoro di servizio sessuale, dunque, visto come «scelta e non solo come costrizione dovuta alla povertà delle donne o abuso della volontà femminile». Nello stesso capitolo, Roberta non poteva sapere che stava mettendo il dito in una piaga che ancora non si rimargina. Nel paragrafo “Femministe e prostitute, disunite nella lotta”, ancora scrive: «Fatto sta che quando sono in gioco i comportamenti sessuali le convivenze sono difficili: la contraddizione in termini “femministe o prostitute” lo dimostra: le femministe sono donne, le prostitute pure. E allora? Non c’è dubbio che tra donne che praticano la prostituzione e donne che non la praticano esistono comportamenti e pratiche sessuali differenti. Questo è l’ostacolo. Questa differenza, da quando si è resa visibile sulla scena della politica, è stata o conflittuale o rimossa o anestetizzata».
Dunque: denaro, mercato, politica. In quel contesto a occuparsi delle sex workers non erano le femministe, scrive Michi Staderini, ma le donne del Comitato di Carla e Pia.
Nella edizione dello stesso volume pubblicata nel 2012, Bia Sarasini ritorna sul tema, e giunge alle stesse conclusioni offerte in precedenza, aggiungendo ciò che era successo nel femminismo in quegli anni, a partire dalla manifestazione romana di Se non ora quando del febbraio 2011. «Ho visto – scrive Bia – profilarsi i contorni di una storia antica quanto i movimenti di emancipazione delle donne: il desiderio, anzi la rivendicazione, di donne che non si prostituiscono e cercano la propria autonomia, di distinguersi da quell che la prostituzione la praticano». Sentimenti che arrivano in maggioranza dalle donne più giovani, che vedevano nei favori dati in cambio di lavoro o cariche politiche dell’era berlusconiana, un uso del corpo che si mostra spudorato rispetto a chi ha fatto scelte opposte, come se le conquiste della libertà sessuale le avesse rese «meno aggressive», «le audacie del femminismo d’antan, di cui oggi è di moda decretare il fallimento, sembrano dividere più che unire». Negli anni che passano tra il 1991 e il 2012 nuovi elementi si aggiungono a complicare il mondo del sex working e il divario di posizioni all’interno dei femminismi: la crisi economica del 2008, il caso Berlusconi di cui abbiamo già detto, la lotta per l’affermazione dei diritti LGBQTI, l’aumento delle migrazioni con conseguente crescita dei casi di tratta e sfruttamento della prostituzione. È anche a causa di questo che la sex worker – potremmo dire – perde di popolarità nella lotta ai suoi diritti. La stessa Roberta, scriverà anni dopo su Lucciola di valutare con pessimismo la possibilità di rilanciare la prostituzione come tema libertario. Ed è anche a causa di ciò che il discorso si sposta nel tempo – negli schieramenti opposti abolizionismo-legalizzazione – sul cliente e sulla domanda: la puttana è una vittima di stupro potenziale, sempre, anche quando viene pagata – scrive Luciana Tavernini nell’intervista a Ilaria Baldini sul numero 134 della rivista Leggendaria (www.leggendaria.it), dedicato alla rabbia maschile. Il cliente per Tavernini diventa il “prostitutore” (sex worker no, prostitutore sì?), mischiando a mio parere pericolosamente l’esperienza delle donne vittima di violenza e di chi le supporta, con il mercato del sesso che potremmo chiamare autodeterminato.
Torna alla memoria la famosa definizione data dall’avvocato di Berlusconi Niccolò Ghedini, che definì il cliente “utilizzatore finale”, e che Bia ricorda per sottolineare che è ancora il desiderio a definire le leggi del mercato. Punire il cliente è più facile che domandarsi chi è e cosa cerca chi compra il sesso (e qui ancora un rimando al passato, ricordando le inchieste di Gabriella Parca (I sultani, Rizzoli, 1965) e Maria Rosa Cutrufelli (Il cliente, Editori Riunti, 1988): nell’era del consumo globale i servizi sessuali sono merce come un’altra ed è più facile comprarli, svincolati da etica e relazioni.
Comprare e consumare, allora, inclusi i corpi delle donne e degli uomini. Non si discosta da queste essenziali osservazioni Giorgia Serughetti, che pubblica in seconda edizione Uomini che pagano le donne (Ediesse, 2019). Giorgia ricorda quando dieci anni fa l’allora ministra per la Pari Opportunità Mara Carfagna promosse una legge che puniva la prostituzione in luogo pubblico e il cliente. Anche l’Unione Europea nel 2014 con la risoluzione Honeyball unisce lo sfruttamento alla volontarietà, definendo anche il sex working autodeterminato come «una forma di schiavitù incompatibile con la dignità umana e diritti umani fondamentali”. E commenta che, pur condividendo la necessità di combattere le diseguaglianze, «non ho cambiato opinione in merito alla pericolosità di norme che intervengano sulla materia in chiave primariamente repressiva, colpendo in particolare le manifestazioni più visibili del fenomeno».
Ancora, il femminismo si divide e non posso che condividere con Giorgia la triste considerazione che «il cliente è rimasto più diffusamente una proiezione di quello sulla “prostituta”: alla donna vittima corrisponde il cliente criminale». E ciò che viene più diffusamente non considerato dalle donne “abolizioniste” sono le altre e svariate forme di negoziazione economica nelle relazioni, come il lavoro di cura o i patti più o meno espliciti del matrimonio.
La domanda di sesso a pagamento sta dunque nella visione più ampia della sua rappresentazione nella società, dove il denaro non crea situazioni di dominio, quanto piuttosto «è il sistema di potere economico, politico e sociale in cui questa si inserisce». Pensare dunque che una legge contribuisca al mutamento culturale della mentalità e della domanda di sesso a pagamento pare davvero arduo quanto inutile da perseguire.
Un anno fa Leggendaria dedicava il numero di marzo al Feminist war, ovvero l’acuirsi degli scontri (chiamiamoli col loro nome) all’interno del femminismo su questioni cruciali come quella di cui abbiamo parlato finora e resi peggiori da una nuova maniera di schierarsi politicamente attraverso i social media. Scrivevo allora della mia riluttanza a intervenire in quelli che ormai non mi sento di definire dibattiti, all’arroccamento su posizioni che ricordano altri scenari prevalentemente maschili, da cui abbiamo per anni cercato di separarci. Nessuna delle posizioni sul sex working di cui abbiamo parlato finora è esente da pecche, sottolinea Tamar Pitch nella postfazione al volume di Serughetti. Vero, mi preme allo stesso tempo sottolineare che in Italia c’è una proposta di legge che riguarda la prostituzione e la possibile riapertura delle case chiuse, ci sono le elezioni europee dove già tira una preoccupante aria reazionaria. Occorre fare una politica che trovi formule ed elabori proposte che abbiano una credibilità e che mostrino meno il fianco scoperto del “dibattito” interno al femminismo.
Articolo apparso sul blog http://olimpiabineschi.it