Pubblicato sul manifesto il 12 marzo 2019 –
Ogni tanto, digitando codici e indirizzi per accedere a qualche servizio on-line, mi imbatto nella richiesta di dimostrare questa proposizione, a proposito della mia stessa natura: “non sono un robot”. La prima volta che mi è capitato mi sono, come suol dirsi, stropicciato gli occhi. Che senso avrà mai questa richiesta? Poi ho capito – anche documentandomi naturalmente su wikipedia – che si tratta di una sorta di barriera contro malevole intrusioni informatiche, evidentemente non immediatamente umane.
Tuttavia resta una sottile sensazione straniante e vagamente perturbante quando la faccenda si ripresenta.
Ma tu che, al di la di eteree distanze digitali, mi chiedi di dimostrare di non essere una macchina, non sarai – anzi lo sei senza dubbio – proprio tu un robot?
E come potrà l’intelligenza artificiale che ti anima – quanto ottusa, o quanto irraggiungibilmente potente – discernere in me l’uomo dall’automa?
Il test a cui ogni tanto mi sottoponi mi sembra per la verità un poco stupido (certe volte, misteriosamente, basta un mio click per vedermi accettato come umano senza bisogno di controprove). Se fossi un robot anche solo moderatamente – per quanto artificialmente – intelligente, lo saprei di sicuro superare d’un balzo, ingannandoti con non piccola soddisfazione macchinica.
Ma a questo punto mi perturba un’altra più complessa ipotesi. E se io fossi effettivamente un robot, che per qualche svista o malizia di programmazione, si crede uomo?
In fondo, poi, la radice dell’essere robot non è terribilmente umana? Lo saprete senz’altro meglio di me, ma la parola robot non è entrata da molto tempo nel nostro lessico. Il termine deriva dal ceco robota, che significa schiavo, lavoratore forzato. Viene coniato nel 1920 dallo scrittore praghese Karel Čapek che lo utilizza in un testo teatrale per indicare gli automi di forma umanoide che si ribellano al padrone per rivendicare la propria libertà.
Un comportamento drammaticamente umano, direi. Forse, anzi senza dubbio, da recuperare di questi tempi.
Un fatto è certo – almeno per me: l’algoritmizzazione delle nostre vite produce inquietanti fenomeni di atonia, quasi afasica.
Giorni fa ho scoperto che, senza alcun preavviso, la mia carta di credito è stata bloccata. Non sono riuscito ad avere spiegazioni convincenti, né da procedure automatiche, né dalla viva voce di lavoratori della banca. Se non l’allusione al fatto che è venuto meno un contratto tra la banca dove è aperto il conto corrente e una società che gestiva il servizio (parlo, per non fare nomi, di Banca Intesa e di Nexi). Non mi addentro negli interrogativi di natura finanziaria e sistemica che il caso potrebbe sollevare, ma ho vissuto alcuni stravaganti minuti con impiegati gentili di una filiale, che sono riusciti solo a dirmi che il blocco era irreversibile e che aveva coinvolto altri clienti (aver compagni al duol scema la pena?). Ma per decisione di chi? Tutti vittime di un processo di robotizzazione pervasiva?
Ho poi scoperto che per riottenere una carta di credito attiva bisogna produrre una documentazione che va indiscutibilmente trasmessa al destinatario per posta cartacea! Ho avuto la consolazione che a spiegarmi con pazienza queste stranezze nell’era digitale era al telefono una signorina anche lei molto gentile. O almeno tale sembrava.
Ne ho tratto qualche piccola e molto provvisoria conclusione. L’”innovazione tecnologica” produce facilmente una sorta di ulteriore instupidimento burocratico. Resta la consolazione che, forse per qualche errore negli automatismi, sopravviva qua e là un po’ di gentilezza, umana o robotica che sia.